Aria di festa

13 Aprile 2010   10:13  

Leggo solo oggi la lettera che i due medici aquilani, colpiti a lutto dal Sisma del 6 aprile. Ieri ne avevo appreso la notizia dalla televisione locale, ma essendo domenica pomeriggio non ero riuscito a procurarne copia, essendo ormai chiuse le edicole.

Conosco il Dott. Vittorini per le qualità umane che come medico è sempre risuscito ad esprimere.

Non conosco il dott. Cinque. Suo padre, dott. Teobaldo è stato il medico della mia famiglia, essendo originario di San Gregorio, quindi vicino a Onna dove sono nato e cresciuto, fin da quando io ero in fasce.

Provo sconcerto a leggere quelle righe. Penso se, per caso, non l’abbia scritta io quella lettera, magari in sogno. No, non voglio appropriarmi di quanto non mi appartiene. In questo frangente, qui a l’Aquila, ho modo di osservare che sono in tanti a volare sul nido del cuculo.

Certamente sento quei contenuti, profondamente, angosciosamente vicini, dentro i miei pensieri.

Solo qualche giorno fa tentavo di evidenziare come a L’Aquila non si sia parlato mai, dei nostri morti, delle vittime del sisma, se non in qualche occasionale, sporadica, fugace, occasione. Anch’io come quei due cittadini ho subito un lutto. Non oso dire che so cosa provano. Cosa c’è di più individuale del dolore? Ognuno ha il suo. Il dolore non si può condividere. Ci si può stringere. Ma ognuno coltiva il proprio lutto, il proprio dolore, i propri ricordi.

Il ricordo, nella nostra città ad un anno dal triste evento, è durato meno di una notte. Un corteo, numeroso, composto, silenzioso. Poi si ricomincia con le feste. Addirittura con i pastaparty, qualcuno avrà anche brindato? Non sarebbe neanche la prima volta. “Una giornata di sano divertimento” recitava il volantino. Alla prossima una festa della birra?

Un minuto di silenzio nel giorno di commemorazione dell’anniversario dei nostri morti. In Polonia hanno proclamato 7 giorni di lutto nazionale. Non meritavano la considerazione quegli inconsapevoli e beffati, incolpevoli ed inermi, e soprattutto nostri cari?

Dacia Maraini diceva che quei “morti ci indicano la strada”. Purtroppo nessuno, o quasi, ha avuto il buon senso di percorrere tale sentiero. I bisogni primari hanno avuto il sopravvento. Siamo stati stritolati dalle impellenti necessità. Qualcuno ha esultato per il fatto di aver trovato torte e champagne nelle C.A.S.E.. Certo non è una colpa, non tutti eravamo stati colpiti dal lutto. Chi ha avuto la casa, ha riavuto la casa. Siamo stati condannati ad interpretare il ruolo del popolo degli osannanti scalzi!

Nel passato il terremoto, e i drammi che esso provocava, veniva interiorizzato religiosamente, con la più profonda spiritualità. Le Credenze, tutte, che non si esentavano dall’esercitare anche qui il più cupo e strenuo controllo sulle popolazioni, aiutavano nel contempo le genti colpite ad interiorizzare ed elaborare con i loro riti il dolore ed il lutto. Era l’Ira di Dio che puniva la disubbidienza degli umani. Il terremoto viene associato alla morte di Cristo, come Matteo ci narra, “ La terra si scosse e le rocce si spezzarono” (a proposito, l’Imperatore Tiberio Augusto in quell’occasione esonera le 12 città colpite dal pagamento di ogni tributo per cinque. Nel 475 fu il vescovo di Vienna che istituisce la recita delle Litanie per raccogliere in preghiera i credenti e scongiurare un nuovo terremoto. Di seguito nel 801 in cui il terremoto provoca dolore e distruzione, vengono istituiti i riti delle Rogazioni. Ricordo ancora Don Sebastiano Cantalini che nei tre giorni antecedenti l’Ascensione usciva per le strade di campagna che confluivano al mio paese innalzando il crocefisso, invocava, , “ at fulgore et tempestate “ rivolgendosi ad oriente, “ a flagello terremotus” rivolgendosi ad occidente “ At Peste, fame et bello” benedicendo in direzione meridionale terminando “a omni malo libera nos Domine”.

L’Anno Sanno, detto anche Giubileo, così ci narra l’Abate Vincenzo Magnati nel 1688, fu proclamato per la prima volta nel 1300 proprio a seguito di un violento terremoto. E la gente pregava, pregava per le proprie famiglie, per i propri morti. E dopo il 1703 la nostra città adottò i colori del nero e del verde quale segno di lutto, il carnevale, dopo di allora fu spostato a dopo la Candelora e diventò più breve. San Emidio fu assurto nel culto di protettore contro il sisma.

Oggi quei morti, dapprima raccolti in mezzo alle macerie ed ammassati poi dentro un capannone, non ossequiati, adombrati dalle passerelle propagandistiche di piccoli uomini, chiusi in bare di qualità scadente e seppelliti in remoti angoli dei cimiteri cittadini, magari dove meno si possano notare, pesano così tanto sulla coscienza di questa città che sembra debbano essere cancellati al più presto dalla memoria collettiva. Oggi, in città, per quei morti c’è stato solo un minuto di silenzio.

Io mi sento intimamente, profondamente orfano. E mi sento fraternamente legato ai Signori Massimo e Vincenzo.

Aldo Scimia

 


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