Berengo Gardin a L'Aquila: "Gli italiani tendono a distruggere le cose belle che hanno"

01 Giugno 2012   16:41  

Filippo Tronca ha incontrato Gianni Berengo Gardin presso la Sala Conferenze Carispaq “E. Sericchi”, in occasione della presentazione del volume “L’Aquila prima e dopo”, un progetto di One Group pubblicato in co edizione con Contrasto.

Il fascino del passato è che è passato, sentenziò un noto gaudente esteta d’oltremanica. Si fa fatica però a credergli davanti agli scatti in bianco e nero di Gianni Berengo Gardin, ligure di poche parole e tra i più celebrati fotografi italiani, dedicati a L’Aquila, prima e dopo il terremoto. Quei fotogrammi di crepe, macerie e fantasmi sono un passato che deve tornare in vita, il passato di una città che come la Zemude di Calvino vive sospesa sul sottile filo della nostalgia e della volontà di ricostruzione.

“Nella mia vita - spiega Berengo Gardin – ho fotografato altri terremoti, come quello in Friuli, in Umbria, in Belice. Ma qui è diverso. Oggi solo questa città, che ho conosciuto quando lavoravo per il Touring club e che ho poi amato e frequentato negli anni, mi ricorda il quartiere San Lorenzo a Roma, com’era ridotto dopo i bombardamenti degli americani. Avevo quattordici anni, e qui c’è lo stesso silenzio di morte

Ed il silenzio a ben vedere è protagonista anche dei vecchi scatti riproposti da Berengo Gardin, quelli dell’Aquila che c’era una volta. Un silenzio però stavolta pulsante di vita. Il silenzio di passeggiate all’alba nei vicoli, delle persone assorte in contemplazione alla finestra, del lavoro lento e ritmico di un artigiano nella sua bottega, di un pittore davanti le sue tele, di un frate che sfoglia con devozione un tomo antico. In quelle foto importanti pensieri sull’abitare, su cosa sia, metafisicamente parlando, una città “Una città che si ama – prosegue Berengo Gardin - è fatta di spazi vuoti, di luce, di lentezza, non solo di case, è fatta di relazioni che si hanno con le altre persone. In una città che si ama bisogna incontrare i bambini. La città è la sua vita quotidiana, le donne che vanno a fare la spesa, la gente comune che va la lavorare.

” In quel silenzio, par di capire, anche l’origine di quel demone che si appaga solo nell’imprimere la luce su di una pellicola, una luce che chissà proviene da una stella lontanissima che intanto si è spenta per sempre. “Per me la fotografia – dice Berengo Gardin – ha sempre a che fare con il tempo che passa. Credo che l’impegno di un fotografo debba essere innanzitutto quello di testimoniare l’epoca che vive, far vedere quello che lui vede, nel modo più onesto possibile.

La fotografia per me non è solo una forma d’arte, è essenzialmente documentazione. In archivio ho oltre un milione di foto. Lì c’è anche tutta l’Italia che da quando faccio fotografie ho attraversato e conosciuto, e ho una certa età. Mi piace pensare che tra cento anni questo lavoro di testimonianza possa essere utile”

Sta dunque nell’intima relazione con l’assenza, con l’istante che separa un prima e un dopo, la missione e l’etica del mestiere di fotografo? Chiediamo, per avere una conferma: dei luoghi e dei paesaggi che hai fotografato in tutto il mondo, in quali sei tornato, e hai scoperto essere perduti per sempre, rimasti solo nel tuo archivio, in vecchie foto di una scena prima del delitto? La voce di Berengo Gardin e si fa cupa e vibrante:

L’uomo, specialmente l’uomo italiano, ha la tendenza a distruggere le cose belle che ha. Certe cose per fortuna sono indistruttibili, altre non possono resistere alla mano dell’uomo. Ci sono paesaggi in Toscana e Sicilia che ho fotografato e che oggi sono stati rovinati da orrori architettonici. Lo stesso è accaduto in Lombardia. Forse si è si è salvato l’Alto Adige, dove il paesaggio è sopravvissuto all’avvento del turismo, che porta ricchezza alla popolazione ma spesso a farne le spese è la bellezza dei luoghi, l’invasione degli alberghi. Io poi sono un fanatico della cultura contadina. Fino a cinquant’anni fa anche noi eravamo un grande paese contadino. E la parte migliore di quella civiltà insieme ai suoi paesaggi sta scomparendo. La sua è una bellezza fragile e preziosa, come dimostrano qui i tanti borghi distrutti dal terremoto”

Realismo lirico è stato felicemente definita la cifra estetica della fotografia di Berengo Gardin, testimone di un’Italia che usciva dalla guerra e che saliva la china di un contraddittorio benessere industriale e consumistico. Un fotografo orgoglioso di aver forse dato un posticino nella storia alla gente normale, agli ultimi e agli esclusi. Sincero poi il suo vantarsi delle foto che non ha scattato per il rispetto di un limite deontologico, più di quelle che lo hanno reso famoso.

E a tal proposito anche a noi ama ripetere: “Dico sempre che non sono un artista, ma un artigiano. Anche nella fotografia infatti ci deve esserci una manualità, lo scatto, la camera oscura , il finissaggio. Per questo non amo affatto il digitale, che rispetto alla pellicola è come una cyclette rispetto ad una bicicletta. È un modo freddo, freddissimo di fotografare, non ha la plasticità della pellicola. E i vantaggi sono minimi, almeno per chi non ha esigenze di dover inviare subito le sue foto ad un’agenzia, come un reporter di guerra. Il digitale rischia di rovinare la mentalità dei fotografi. C’è una bella differenza tra una foto e un’immagine, la seconda può essere taroccata al computer, distorcendo la realtà di quello che si è visto, e che andava testimoniata. ll digitale ha portato poi ad una inflazione di immagini. Per fortuna che comunque una bella fotografia la riconosci tra un milione”.


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