Bussi, il velo pietoso sui veleni, la bonifica delle coscienze

27 Novembre 2013   09:42  

Bussi è una coorte di case compatte intorno al loro castello. Costruito così forse per paura del nemico. O forse chissà per il piacere di stare vicini e parlarsi da porta a porta, da finestra a finestra.

Il nome dato ai vicoli ricorda mestieri della terra e delle mani quasi scomparsi, raccontano di un paese un tempo lontano popolato da umili artigiani, vignaioli, bottari, ramai, fabbri, arrotini e ceramisti, questi ultimi assai apprezzati per talento e fantasia. Di un paese crocevia tra l'Abruzzo delle montagne e quello del mare, nel punto cui il Gran Sasso e la Majella si toccano.

Paese ricchissimo d'acqua, lambito dal Tirino, il fiume dalla triplice sorgente, luogo dell'anima nei secoli per poeti e viaggiatori in virtù della sua purezza adamantina.

Il paese antico è oggi vuoto. Anche sotto questo fragile labirinto di vicoli è passato il terremoto del 2009. Ma prima ancora è passato il progresso.

Una storia antica anch'essa iniziata all'alba del '900 allorchè al suon delle fanfare e delle grancasse futuriste fu edificato un nuovo paese a valle, fatto non di pietra, campanili e torri, bensì di ferro, di ciminiere, labirinti di tubi e capannoni.

Le maioliche cedettero il passo alla produzione di cloro, e nel corso del secolo a quella di corazze per le navi, esplosivi, lacrimogeni, gas asfissianti, anche quello che Mussolini usò per fare stragi in Etiopia.

Nel dopoguerra le fabbriche di Bussi diedero un contributo importante al boom economico, al miracolo italiano.

Grazie alla Montedison che qui impiantò una grande industria chimica che diede lavoro a migliaia di persone e che fece da volano allo sviluppo economico dell'intero Abruzzo. Per produrre additivi, solventi, detergenti. Utilizzando però tra le più terribili sostanze fra quelle dall'uomo sintetizzate, a cominciare dal durissimo e ineliminabile legame cloro-carbonio.

La discarica Tre Monti è l'eredità di questa epopea novecentesca. Una montagna di veleni da 200mila tonnellate e 250mila metri cubi a pochi metri dalle sponde del fiume Pescara, dove il Tirino si immette. Vicino alle sorgenti che offrono acqua potabile per circa 450mila persone e 600mila in estate.

Una discarica di rifiuti tossici pericolosissima, la più grande d'Europa, nel cuore dell'Abruzzo regione verde dei Parchi. Apparecchiata dalla Montedison, allorchè cominciò a stoccare i materiali affianco al fiume nel 1971 in quello che doveva essere un sito provvisorio, giusto il tempo, qualche mese, per costruire i silos per lo stoccaggio definitivo. Prima i veleni venivano scaricati nel fiume, fino a quando cominciarono a protestare le comunità locali a valle. Questo intervento ebbe il beneplacito della Regione e della Provincia. Poi, come spesso avviene in Italia, il provvisorio diventò definitivo. Nella generale indifferenza.

Scoperta nel 2007 la discarica venne subito posta sotto sequestro. Sotto l'egida del commissario straordinario del fiume Aterno-Pescara Adriano Goio.

Dopo sette anni il processo che vede imputati gli ex-amministratori e manager della Montedison arranca, e forte è il rischio di prescrizione, rinvio dopo rinvio delle udienze

Dopo sette anni la bonifica è ancora al di là da venire. Bonifica: ovvero secondo la legge della Repubblica italiana, isolare tutti i veleni dall'ambiente circostante con una messa in sicurezza effettiva, procedere alla caratterizzazione, cioè analizzare metro per metro il sito inquinato, per mappare tutte le sostanze pericolose presenti ed elaborare un piano di rimozione definitiva dei veleni con i relativi trattamenti di disinquinamento, e con una esatta quantificazione economica e una tempistica certa.

Ad oggi con i pochi fondi a disposizione il commissario, che pure avrebbe poteri staordinari e in deroga, ha solo collocato sopra la massa inquinante un telo di contenimento. Intervento fortemente contestato da ambientalisti e comitati cittadini, in quanto viene osservato che la discarica è ancora oggi in ammollo nelle acque profonde di un fiume che attraversa poi tutta la val Pescara, fino al mare.

In un paese normale, dopo una catastrofe ambientale di questa portata si dovrebbe effettuare immediatamente uno screening epidemiologico sulle popolazioni interessate, catalogare le cause di morte, focalizzando l'attenzione su quelle superiori alla media media nazionale, in particolare tumori, malattie cardivascolari e neurodegenerative.

E invece dopo sette anni ancora niente di concreto.

Di questa immane catastrofe ambientale ha inteso dedicare proprio a Bussi un incontro pubblico la Fiera della Domenica, evento itinerante che propone oltre a momenti di convivio e condivisione di conoscenze anche un mercatino di auto produzioni alimentari e artigianali legate al territorio, a sapori e saperi in via di estinzione.

Al centro del dibattito in una sala gremita l'utilizzo degli unici fondi certi arrivati a Bussi, i 50 milioni stornati dai fondi per la ricostruzione post-sismica.

Stanziamento vincolato ad una bonifica finalizzata alla reindustrializzazione. Ovvero i 50 milioni devono essere destinati ad intervenire dentro il perimetro dell'area industriale, anch'essa comunque fortemente inquinata.

Prima il lavoro. Impostazione difesa da buona parte dei bussesi, da tanti operai cassintegrati, dai sindacati, da quasi tutta la politica regionale. Spiega a tal proposito il sindaco Salvatore La Gatta:

''Dopo essere morti di malattie causate dal polo chimico, non possiamo ora morire anche di fame. Ogni giorno al Comune vengono ex-operai che chiedono un aiuto per non hanno più i soldi neanche per pagare le bollette. Quei 50 milioni di euro sono vincolati per intervenire dentro il nucleo industriale. Per riportare il lavoro in questo territorio. Se ne sarà fatto un diverso uso il Cipe li richiederà indietro. Ci sono già molte manifestazioni di interesse da parte di aziende che vogliono venire a produrre a Bussi. E ovviamente noi diremo si solo ad aziende non inquinanti, a progetti industriali seri e che non hanno impatti su un ambiente già troppo provato''

La bonifica della Tre Monti insomma va fatta, e subito, ma con altri fondi, presentando poi il conto a chi il danno lo ha procurato.

Si ribatte che è molto rischioso collegare la bonifica ad un eventuale risarcimento della Montedison, perchè se  processo si riuscirà ad evitare la prescrizione, la sentenza non arriverà prima di cinque anni, poi dovranno essere intentate le cause civili.

C'è poi chi sostiene, nel corso e a margine dell'incontro, che occorre invece un nuovo modello di sviluppo locale, che dica basta all'industria pesante, che ha lasciato dietro di sé morte, veleni e disoccupati. Si propone un ritorno alle risorse del territorio, all'agricoltura, al turismo, alla ricchezza del fiume e della splendida montagna circostante.

Edwige Ricci di Bussi ci riguarda sottolinea che comunque la priorità deve essere la bonifica, perchè quello di Bussi è un problema che non riguarda un territorio circoscritto, i veleni raccolti dal fiume inquinano e minacciano la salute e la vita di decine di migliaia di abruzzesi lungo tutta la Val Pescara. L'emergenza è ambientale prima ancora che lavorativa.

E urla una signora che tiene all'anonimato e che non vuole comparire in video: ''Se aspettano ancora un pò non ci sarà bisogno di nessuna ricerca sui rischi per la nostra salute. Perchè saremo già tutti morti. Perchè in Abruzzo non c'è ancora un registro per il tumore? Se volete un registro per Bussi ve lo posso fare io gratis, posso elencarvi strada per strada tutte le persone che qui sono morte avvelenate!''

Tornando al futuro del polo industriale di Bussi: ci sarebbe anche una via suggerita da Giovanni Damiani, biologo, dirigente dell'Arta, storico ambientalista. Ovvero prendere spunto, evitandone gli errori, dall'esperienza della Val Bormida, dell'Acna di Cengio, una fabbrica che per decenni ha devastato fiumi e terreni per produrre prima esplosivi e poi coloranti. Chiusa dopo durissime lotte dei valligiani a fine anni '80, a Cengio si è lavorato per quasi vent'anni alla bonifica dei terreni circostanti lo stabilimento da quattro milioni e mezzo di metri cubi di veleni. Bonifica arrivata a buon punto, nonostante i ritardi e l'enorme dispendio di denaro pubblico, le cricche in doppio petto che hanno banchettato anche in occasione di questo stato di emergenza.

C'è infine una consapevolezza che ha visto nel corso dell'incontro tutti concordi: è incredibile, insopportabile che una catastrofe ambientale di questa portata sia derubricata da media, politici e anche dall'opinione pubblica a un fatto locale, che riguarda solo una vallata abruzzese e un piccolo paese.

La storia di Bussi è quella di tante altre terre avvelenate dove lo Stato Italiano non interviene con le bonifiche. La stessa di oltre 30 siti contaminati dichiarati, non senza ironia, di interesse nazionale.

Dove comodamente a casa loro gli italiani continuano ad ammalarsi e a morire, a vedere le loro economie andare in malora.

E lo Stato non interviene per mancanza di fondi, impossibilitato a sforare i rigidi e del tutto arbitrari vincoli di bilancio imposti dai creditori internazionali attraverso i Trattati europei. Fondi che invece in questi anni si sono trovati per tante mega-opere inutili o comunque non prioritarie e sovradimensionate.

L'Italia, si scopre poi, ha ricevuto cinque miliardi dall'Europa per la messa in sicurezza del territorio, ma oltre quattro miliardi non sono stati usati a causa della burocrazia arrugginita e pleonastica, dell'inadeguatezza di parte importante della classe dirigente italiana.

''I fiumi non sono confini, sono arterie di un unico grande organismo'', afferma un ragazzo dal pubblico, che vive nella Val D'Orta, altra terra d'Abruzzo avvelenata dall'industrializzazione selvaggia.

Si potrebbe intanto ripartire da qui, da una bonifica delle coscienze, per andare oltre una società economicamente avanzata, ma ecologicamente molto arretrata. Che per troppo tempo ha fatto finta di non sapere che è l'uomo ad essere ospite nell'ambiente naturale e non viceversa.

 

Testo e riprese di Filippo Tronca
montaggio di Marialaura Carducci

 


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Discarica Bussi
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