Castelli: il presepe di acqua, argilla e calore

23 Dicembre 2006   16:03  
I primi ad arrivare furono la sacra famiglia con una pastorella, uno zampognaro ed una bambina. Correva l’anno 1965 e a Castelli, paese abbarbicato davanti al Monte Camicia, famoso nel mondo per le sue ceramiche, fu un natale indimenticabile. Non era un presepe vivente eppure quelle statue avevano qualcosa di magico e vivo perché fatte proprio di ceramica ovvero di argilla, acqua e calore di queste montagne. Ad impastare il tutto le mani dei giovani allievi dell’Istituto d’Arte “F. A. Grue”, su idea dei professori Serafino Mattucci, Gianfranco Trucchia e Roberto Bentini che con questo, chiamiamolo compito in classe, hanno onorato il loro talvolta frustrante mestiere. Il presepe monumentale di Castelli, ospitato nello stesso Istitituto, conta ora 54 statue realizzate dal 1965 al 1975, è conteso dai più importanti musei del mondo, ha commosso Paolo VI che lo ha voluto a Roma, ha entusiasmato importanti critici d’arte. Il presepe sta infatti a metà tra l’ornamento e la scultura, tra il lavoro artigiano e l’espressione artistica: tra l’alfa e l’omega della parabola dell’arte ceramica nel novecento. “I corpi cilindrici ad anelli sovrapposti hanno una funzione pratica – conferma il professor Ennio De Simone che ci fa da guida – in questo modo le statue possono essere smontate e trasportate. Ma tale forma conferisce ad esse anche una valenza estetica”. Il presepe nato sotto il Gran Sasso è crocevia di una confusionaria affabulazione stilistica: la figuralità fiabesca ed irriverente porta ad Antonio Bueno, le figure tozze eppure leggere come piume ricordano Botero ma anche le pupe pirotecniche che coloravano di fuochi il cielo di Castelli. La forma a colonna porta in Messico, agli Atlanti di Tula, gli anelli sovrapposti presso i sumeri che inventarono la ruota e dunque il tornio per forgiare l’argilla. I capelli a spirale e la barba posticcia fanno tornare i Re Magi ad oriente, in Mesopotamia. Il vello delle pecore è fatto con la forgiatura a colombina, la tecnica degli uomini primitivi e dei bambini che fanno maccheroncini con il pongo. Il presepe conserva anche tracce dell’ impegno politico che caratterizzò un’epoca: un boia rievoca l’abolizione della pena di morte in Francia, un arabo ed un cristiano ortodosso bendati non vogliono vedere la guerra del Kippur. Suscitando stupore fa capolino tra le statue un buffo astronauta con la luna in mano e il presepe di Castelli si fa barocco, come i presepi napoletani popolati dai Maradona e dai Totò inseriti in una polluzione di figuranti in scenografie che hanno il gusto ebbro dell’allegoria. Ultima annotazione: nelle sue trasferte alcune statue hanno subito danni, ma in fondo ogni presepe che si rispetti ha sempre un pastore col naso sbreccato e una pecora con una gamba mozza. La giornata a Castelli dovrebbe proseguire nel Museo dell’arte ceramica contemporanea, nel Museo delle ceramiche e nelle tante botteghe artigiane, ma ciò meriterebbe la calma che si conviene e un numero di battute maggiore per riferire. Meglio dunque, dopo aver assaporato le tacconelle con le voliche, rari spinaci selvatici, nella trattoria della signora Jolanda, bere una genziana con un barbuto signore che poi scopriamo essere uno scultore di fama internazionale: “Un artista – puntualizza lui – è solo un artigiano con qualche sogno in più”. Con la precisione di un navigatore satellitare tali parole ci conducono a Palombara, grappolo di case tra calanchi e faggete. La sua bellezza è in quello che non si vede. Non c’è anima viva e a popolarlo sono rimasti misteri e leggende. Sotto il palazzo della famiglia De Prophetis pare sia sepolto un vitello d’oro. Chi vuole trovarlo non deve dirlo a nessuno e tornare a mezzanotte con una candela ed una vanga, ma la candela la possono spegnere i mazzamaurielli, dispettosi parenti abruzzesi degli elfi scandinavi, che amano Palombara. Dentro un armadio della chiesetta è apparsa la Madonna Nera, ad una banda di ragazzini. Cominciò subito un pellegrinaggio di devoti dalle valli circostanti. La voglia di giocare delle canagliette di paese può fare miracoli. Filippo Tronca da MU6 - trimestrale dei musei d´Abruzzo

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