Città e C.I.T.T.A'.

Pensare L'Aquila

01 Febbraio 2010   17:47  

Un illuminante articolo di Marco Morante e Maura Scarcella apparso sul mensile  MU6

.a.q.u.i.l.a.

L’enorme emergenza abitativa procurata a L’Aquila dal sisma 2009, aldilà dell’encomiabile gestione di prima emergenza di cui lo Stato ha dato prova, ha subito prodotto il dubbio amletico sulle modalità da ritenersi più opportune per tamponarla. Alla tradizionale, seppur tecnologicamente avanzata, ipotesi dei moduli abitativi provvisori impilabili – come negli anni ne sono stati progettati e sperimentati – è stata preferita una strada alternativa “muscolare” di grande impatto logistico e mediatico, come anche urbanistico, ambientale e territoriale: lottizzazioni periferiche di palazzine antisismiche.

Senza volere entrare nel merito della scelta temporaneo/durevole ormai operata ed evitando, per carenza di spazio, di trattare delle qualità intrinseche della composizione e della localizzazione degli insediamenti sulle quali pur si nutrono molte perplessità, le c.a.s.e. del modello Berlusconi-Bertolaso-Calvi potrebbero offrire l’occasione per una diversa riflessione sulla città, che le permetta – prima che ai suoi provvidenziali salvatori – di crescere secondo un modello virtuoso di gestione urbana e territoriale.

A ben vedere molte delle palazzine realizzate nell’ambito del progetto c.a.s.e. sono di buona fattura, un’edilizia che talvolta tende all’architettura, dal funzionamento antisismico dato per assolutamente sicuro.

L’idea di città che vi è dietro però (ammesso che ci sia) è affetta da quella miope settorialità propria delle grandi avventure avanguradistiche fatte in nome del progresso e, in questo caso più che mai, dell’emergenza che troppe volte ha stravolto repentinamente parti del nostro Paese. Si tende a focalizzare energie sull’aspetto innovativo dell’opera, trascurandone altri altrettanto importanti e già largamente riconosciuti come tali presso la comunità scientifica che dovrebbe fungere da riferimento. La c.i.t.t.à. del progetto c.a.s.e. nega, infatti, alcuni dei basilari principi della pianificazione territoriale:

  1. semplici ragionamenti di economia dei trasporti e di approvvigionamento energetico consigliano densità urbana rispetto allo sprawl edilizio (1) auto-prodottosi per buona parte del XX secolo;
  2. un progetto urbano strategico dovrebbe tentare di localizzare sacche di popolazione coerentemente con la posizione dei servizi primari, in modo che ne possa essere ottimizzata la fruizione come lo stesso funzionamento dell’organismo urbano;
  3. i delicati rapporti tra insediamenti e reti ambientali escludono la frammentazione degli habitat mediante la diffusione insediativa.

Inutile sottolineare, poi, l’imponete fenomeno di disgregazione sociale che, prodotto dalla diaspora post-sismica, si teme possa tendere alla cronicizzazione per via delle provvisoria definitività delle c.a.s.e.

Tutte questioni che mettono in crisi le caratteristiche peculiari di L’Aquila, proprio quelle che la rendevano attrattiva tra altre: prossimità tra i luoghi di vita, svago e lavoro in un ambiente denso e circoscritto dalle alte qualità urbane, crocevia di scambi, economie e culture – il centro dalla buona qualità della vita e dal forte valore identitario – voluto fin dal ‘200 quale riferimento rispetto ad un ager “policentrico” prima, “debole e diffuso” poi, luogo della produzione agricola, artigianale ed industriale, dalle alte qualità naturalistiche.

In sintesi, il progetto c.a.s.e. indebolisce il centro e disperde la periferia (2), mettendo in discussione quelle suddette qualità che rendevano L’Aquila unica o quantomeno rara, portandola invece ad assomigliare alla “metropoli piccola” (3) della provincia italiana di cui il pettine adriatico è esempio eloquente. Una città, quest’ultima, senza qualità, figlia dell’individualismo e dell’abusivismo (4) nonché priva di centro, surrogato dagli shopping mall e dal sistema infrastrutturale della mobilità, di cui l’originario modello aquilano costituiva tenacemente una alternativa convincente.

l’aquila

Da più parti si è evidenziata la discreta qualità edilizia del progetto c.a.s.e., soprattutto se confrontata con l’invero scarsa qualità edilizia dell’espansione urbana “ordinaria” recente e pregressa (a L’Aquila, come a Pescara, Chieti, Teramo…), che dagli anni ‘50 in poi ha invaso il territorio con insediamenti umani privi di qualità e dei basilari indici di sicurezza.

Questa comparazione è servita a molti per avvalorare la giustezza del progetto c.a.s.e., cadendo in una omologazione in negativo nella quale L’Aquila non può concedersi il lusso di indugiare.

Alla scala dell’estetica architettonica, il progetto c.a.s.e. batte, seppur ai punti, e grazie solo ad alcune delle soluzioni adottate, la preesistente periferia aquilana e può aiutare a migliorare il senso estetico di costruttori, tecnici e cittadini, quando poco esigente e distratto, quando alla ricerca di improbabili soluzioni che il più delle volte cadono nello scimmiottamento di stilemi storici o nel kitsch (5).

Ma anche alla scala più ampia l’espansione urbana del capoluogo non ha molto da insegnare al progetto c.a.s.e., portando in sé gli stessi vizi, quando come espansioni del centro, incuranti di diffonderne gli stessi valori, quando come insediamenti isolati, incapaci di sostanziarsi quali parti di città. Prodotto, questo, di una politica locale attenta perlopiù al profitto, indifferente a quelle qualità urbane da raggiungersi mediante la dislocazione di spazi pubblici e servizi, di luoghi nell’accezione alta del termine, capaci di dare senso a brani di città individuati invece nell’interesse fondiario di pochi (6). Logiche indifferenti anche alla sicurezza degli edifici e dei cittadini, capaci di trascurare le chiare indicazioni geologiche che indicavano presenze significative di faglie ed una storia sismica non certo da seconda categoria.

L’enorme porzione insediativa esterna al tessuto storico non era e non è città in quanto carente di requisiti urbani minimi come:

  1. servizi di prossimità che ne consentissero una vita parzialmente equiparabile a quella del centro;
  2. luoghi sociali di aggregazione e identificazione che contribuissero a costruire identità collettiva;
  3. qualità architettoniche, spaziali e compositive che, salvo rarissimi casi, ne determinassero un valore estetico d’insieme;
  4. integrazione con i luoghi della natura che, pur se talvolta spontaneamente prossimi, fossero accessibili ai più;
  5. ruolo di complementarietà con il centro storico capace di accrescere la capacità attrattiva della città.

In sintesi, la periferia aquilana è un non luogo senza qualità frutto di una società che ha delegato senza vigilare e senza pretendere, di una classe di rappresentanti che si è approfittata di ciò, di una generazione di tecnici che ha evitato lo scontro costruttivo preferendo o lo scontro sterile o, peggio, la complicità.

l’aquila ter

A L’Aquila pre-sisma a diffusione-policentrica marginale rispetto alla forte identità del centro città, si è avvicendata dopo il 6 aprile 2009 una configurazione dovuta allo svuotamento del centro ed allo sbilanciamento centrifugo e durevole verso nuove centralità residenziali ed infrastrutturali.

Si ritiene che l’assetto iniziale aquilano, pur con le notevoli carenze riscontrabili nella dotazione infrastrutturale e nei modelli insostenibili di gran parte delle politiche urbane, dal punto di vista degli equilibri territoriali costituisse un caso virtuoso figlio di caratteristiche storiche e territoriali uniche.

La tendenza a riprodurre il modello di territorio centripeto e la constatazione degli impedimenti derivanti delle ingenti opere eseguite nella fase emergenziale post-sismica, peraltro necessarie al funzionamento urbano prima del ritorno ad un regime ordinario, inducono ad una strategia in tre mosse, dal generale al particolare mantenendo il centro storico nel mirino.

  1. Alla dispersione del progetto c.a.s.e. e dei tanti “centri altrove”, dei mall commerciali e della rete stradale, è necessario contrapporre fin da subito una strategia di convergenza verso il centro storico da attuarsi mediante la convinta tutela e qualificazione delle reti ambientali in luoghi di svago e mobilità alternativa che consentano un collegamento fra le periferie ed il nucleo, facendo del viaggio un’esperienza. Tale azione avrebbe il grande merito di scaricare la rete stradale tradizionale, di mettere in opera la natura e di aumentare le possibilità di movimento, evitando così tanto di relegare parti di popolazione in porzioni di territorio, quanto di infittire la rete del traffico su gomma.
  2. L’espansione urbana pre-sisma non ha mai messo a repentaglio il ruolo preminente del centro storico tanto per il suo sviluppo nella corona urbana più prossima, sia per la mancanza di qualsiasi attrezzatura capace di attrarre. Proprio ciò l’ha resa città-dormitorio, incapace di dare risposte alle esigenze dei residenti anche per le prime necessità, oltre che di coadiuvare l’adiacente centro storico nel sovraccarico funzionale e logistico. L’azione di infrastrutturazione da attuarsi nel prossimo futuro sull’espansione urbana prodottasi in tutta la seconda metà del ‘900 dovrà dunque muoversi nel difficile equilibrio dell’affiancare il centro storico pur senza indebolirne la centralità. Ciò è possibile solo immaginando il centro e l’espansione più prossima come un unico nucleo territoriale, rendendo l’innesto infrastrutturale occasione di riqualificazione strategica dagli effetti ben più ampi della semplice area di intervento.
  3. Complementarmente e conseguentemente, il centro storico potrà avvalersi finalmente di opportunità di rarefazione che consentano maggiore sicurezza e libertà di evacuazione, nonché di eliminazione del traffico veicolare tradizionale. Una decongestione che ne mantenga i caratteri identitari senza rinunciare ad una riconversione verso i principi ampi e interculturali della sostenibilità come anche al recepimento di attenti e rispettosi semi della contemporaneità tanto nell’ambito delle tecnologie e delle estetiche costruttive che dei programmi funzionali capaci, questi ultimi, di renderlo incubatore di attrazione non solo locale.

In sintesi, unitamente alle azioni seguenti, si ridurrebbe l’antagonismo tra aree esterne e centro cittadino.

NOTE

(1) E’ bene notare che per forme dense è possibile immaginarne di varie e disparate, da quelle areali di una città convenzionale a quelle lineari di insediamenti sorti lungo una arteria infrastrutturale, a quelle reticolari, fino anche alle configurazioni ad arcipelago in cui potrebbe rientrare l’insieme dei 19 insediamenti del progetto c.a.s.e., ma per evidenti ragioni localizzative le aree sembrano piuttosto alimentare una crescita disordinata universalmente codificata con il termine inglese sprawl.

 (2) Tra lo “spargersi per largo spazio” della diffusione e l’”allontanare l’uno dall’altro” della dispersione (Garzanti), si intende rimarcare l’accezione ulteriormente negativa della seconda.

(3) Barbieri G., Metropoli piccole, Meltemi, Roma, 2003 – E’ una somiglianza che si avverte prima di tutto nella centralità urbana che assumono i collegamenti territioriali che tendono a bypassare le precedenti centralità.
(4) La Delibera di Giunta n. 147 del 12 maggio 2009 del Comune di L’Aquila consente la realizzazione di manufatti temporanei su terreni anche non edificabili.
(5) Marco Morante e Maura Scarcella, StraORDINARIO a L’Aquila, MU6 n. 4, 2007
(6) Sono vicende che ormai non fanno più notizia ma che, si crede, occorre ricordare. Del resto, basta rivedere con lucidità anche solo le scene inziali di Le mani sulla città di Francesco Rosi (1963) per risalire ad alcuni dei mali delle città italiana e per constatare quanto poco sia stato fatto per debellarli.

Oroscopo del Giorno powered by oroscopoore