Un illuminante articolo di Marco Morante e Maura Scarcella apparso sul mensile MU6
.a.q.u.i.l.a.
L’enorme emergenza abitativa procurata a L’Aquila dal sisma 2009, aldilà dell’encomiabile gestione di prima emergenza di cui lo Stato ha dato prova, ha subito prodotto il dubbio amletico sulle modalità da ritenersi più opportune per tamponarla. Alla tradizionale, seppur tecnologicamente avanzata, ipotesi dei moduli abitativi provvisori impilabili – come negli anni ne sono stati progettati e sperimentati – è stata preferita una strada alternativa “muscolare” di grande impatto logistico e mediatico, come anche urbanistico, ambientale e territoriale: lottizzazioni periferiche di palazzine antisismiche.
Senza volere entrare nel merito della scelta temporaneo/durevole ormai operata ed evitando, per carenza di spazio, di trattare delle qualità intrinseche della composizione e della localizzazione degli insediamenti sulle quali pur si nutrono molte perplessità, le c.a.s.e. del modello Berlusconi-Bertolaso-Calvi potrebbero offrire l’occasione per una diversa riflessione sulla città, che le permetta – prima che ai suoi provvidenziali salvatori – di crescere secondo un modello virtuoso di gestione urbana e territoriale.
A ben vedere molte delle palazzine realizzate nell’ambito del progetto c.a.s.e. sono di buona fattura, un’edilizia che talvolta tende all’architettura, dal funzionamento antisismico dato per assolutamente sicuro.
L’idea di città che vi è dietro però (ammesso che ci sia) è affetta da quella miope settorialità propria delle grandi avventure avanguradistiche fatte in nome del progresso e, in questo caso più che mai, dell’emergenza che troppe volte ha stravolto repentinamente parti del nostro Paese. Si tende a focalizzare energie sull’aspetto innovativo dell’opera, trascurandone altri altrettanto importanti e già largamente riconosciuti come tali presso la comunità scientifica che dovrebbe fungere da riferimento. La c.i.t.t.à. del progetto c.a.s.e. nega, infatti, alcuni dei basilari principi della pianificazione territoriale:
Inutile sottolineare, poi, l’imponete fenomeno di disgregazione sociale che, prodotto dalla diaspora post-sismica, si teme possa tendere alla cronicizzazione per via delle provvisoria definitività delle c.a.s.e.
Tutte questioni che mettono in crisi le caratteristiche peculiari di L’Aquila, proprio quelle che la rendevano attrattiva tra altre: prossimità tra i luoghi di vita, svago e lavoro in un ambiente denso e circoscritto dalle alte qualità urbane, crocevia di scambi, economie e culture – il centro dalla buona qualità della vita e dal forte valore identitario – voluto fin dal ‘200 quale riferimento rispetto ad un ager “policentrico” prima, “debole e diffuso” poi, luogo della produzione agricola, artigianale ed industriale, dalle alte qualità naturalistiche.
In sintesi, il progetto c.a.s.e. indebolisce il centro e disperde la periferia (2), mettendo in discussione quelle suddette qualità che rendevano L’Aquila unica o quantomeno rara, portandola invece ad assomigliare alla “metropoli piccola” (3) della provincia italiana di cui il pettine adriatico è esempio eloquente. Una città, quest’ultima, senza qualità, figlia dell’individualismo e dell’abusivismo (4) nonché priva di centro, surrogato dagli shopping mall e dal sistema infrastrutturale della mobilità, di cui l’originario modello aquilano costituiva tenacemente una alternativa convincente.
l’aquila
Da più parti si è evidenziata la discreta qualità edilizia del progetto c.a.s.e., soprattutto se confrontata con l’invero scarsa qualità edilizia dell’espansione urbana “ordinaria” recente e pregressa (a L’Aquila, come a Pescara, Chieti, Teramo…), che dagli anni ‘50 in poi ha invaso il territorio con insediamenti umani privi di qualità e dei basilari indici di sicurezza.
Questa comparazione è servita a molti per avvalorare la giustezza del progetto c.a.s.e., cadendo in una omologazione in negativo nella quale L’Aquila non può concedersi il lusso di indugiare.
Alla scala dell’estetica architettonica, il progetto c.a.s.e. batte, seppur ai punti, e grazie solo ad alcune delle soluzioni adottate, la preesistente periferia aquilana e può aiutare a migliorare il senso estetico di costruttori, tecnici e cittadini, quando poco esigente e distratto, quando alla ricerca di improbabili soluzioni che il più delle volte cadono nello scimmiottamento di stilemi storici o nel kitsch (5).
Ma anche alla scala più ampia l’espansione urbana del capoluogo non ha molto da insegnare al progetto c.a.s.e., portando in sé gli stessi vizi, quando come espansioni del centro, incuranti di diffonderne gli stessi valori, quando come insediamenti isolati, incapaci di sostanziarsi quali parti di città. Prodotto, questo, di una politica locale attenta perlopiù al profitto, indifferente a quelle qualità urbane da raggiungersi mediante la dislocazione di spazi pubblici e servizi, di luoghi nell’accezione alta del termine, capaci di dare senso a brani di città individuati invece nell’interesse fondiario di pochi (6). Logiche indifferenti anche alla sicurezza degli edifici e dei cittadini, capaci di trascurare le chiare indicazioni geologiche che indicavano presenze significative di faglie ed una storia sismica non certo da seconda categoria.
L’enorme porzione insediativa esterna al tessuto storico non era e non è città in quanto carente di requisiti urbani minimi come:
In sintesi, la periferia aquilana è un non luogo senza qualità frutto di una società che ha delegato senza vigilare e senza pretendere, di una classe di rappresentanti che si è approfittata di ciò, di una generazione di tecnici che ha evitato lo scontro costruttivo preferendo o lo scontro sterile o, peggio, la complicità.
l’aquila ter
A L’Aquila pre-sisma a diffusione-policentrica marginale rispetto alla forte identità del centro città, si è avvicendata dopo il 6 aprile 2009 una configurazione dovuta allo svuotamento del centro ed allo sbilanciamento centrifugo e durevole verso nuove centralità residenziali ed infrastrutturali.
Si ritiene che l’assetto iniziale aquilano, pur con le notevoli carenze riscontrabili nella dotazione infrastrutturale e nei modelli insostenibili di gran parte delle politiche urbane, dal punto di vista degli equilibri territoriali costituisse un caso virtuoso figlio di caratteristiche storiche e territoriali uniche.
La tendenza a riprodurre il modello di territorio centripeto e la constatazione degli impedimenti derivanti delle ingenti opere eseguite nella fase emergenziale post-sismica, peraltro necessarie al funzionamento urbano prima del ritorno ad un regime ordinario, inducono ad una strategia in tre mosse, dal generale al particolare mantenendo il centro storico nel mirino.
In sintesi, unitamente alle azioni seguenti, si ridurrebbe l’antagonismo tra aree esterne e centro cittadino.
NOTE
(1) E’ bene notare che per forme dense è possibile immaginarne di varie e disparate, da quelle areali di una città convenzionale a quelle lineari di insediamenti sorti lungo una arteria infrastrutturale, a quelle reticolari, fino anche alle configurazioni ad arcipelago in cui potrebbe rientrare l’insieme dei 19 insediamenti del progetto c.a.s.e., ma per evidenti ragioni localizzative le aree sembrano piuttosto alimentare una crescita disordinata universalmente codificata con il termine inglese sprawl.
(2) Tra lo “spargersi per largo spazio” della diffusione e l’”allontanare l’uno dall’altro” della dispersione (Garzanti), si intende rimarcare l’accezione ulteriormente negativa della seconda.