David Grossman a L'Aquila: "Tornare a vivere superando il vittimismo"

01 Giugno 2012   16:10  

Un'intervista a David Grossman, il famoso scrittore rilasciata a Marino Sinibaldi, direttore di Rai 3, in occasione dell’incontro organizzato dall’Associazione culturale L'Aquila Fenice e dal festival Minimondi con il sostegno della Fondazione Carispaq, del Comune dell’Aquila, della Provincia di Roma e di Mondadori editore.

Se posso dire una cosa prima di iniziare… Sono davvero emozionato di essere qui. Ho avuto modo di vedere le rovine della città. Attraverso le storie degli abitanti ho capito quanto fosse viva questa città prima della tragedia e mi si spezza il cuore a vederla come è ora. Non c’è quasi nessuno in strada e si può solo immaginare come fosse prima la vita, come fosse attiva e colorata mentre ora sembra una fotografia in bianco e nero. Guardando i vostri volti, anche se non vi conosco di persona, capisco che voi come me e il mio popolo sapete qualcosa che gli altri non sanno cioè quanto la vita possa essere fragile e quanto ognuno di noi dipenda dagli altri. Altri possono aiutarci economicamente ma penso che il solo vero aiuto e conforto possiamo riceverlo da altri come noi. Vi guardo e penso che forse ognuno di voi ha perso qualcuno di caro, familiari o vicini e sentite ogni giorno il peso della perdita che avete subito. Dopo aver perso mio figlio Uri durante la guerra ricordo come fosse facile per me abbandonarmi al ruolo della vittima e cedere al dolore e alla rabbia. Tutto ciò aiuta ma solo per un breve periodo di tempo. Per me il miglior modo di superare questo stato di vittima, per tornare a vivere è agire. Sì, siete vittime di una situazione ma avete il diritto e il dovere di agire, tornare a vivere la vita che avevate prima se possibile e di aiutare gli altri. Mia moglie è una psicologa e vedo come e quanto diventa più forte aiutando gli altri. Non faccio confidenze di solito, le faccio a voi perché sento che in qualche modo siamo vicini nella sofferenza e volevo proprio dirvelo.

Come può una città che ha subìto un tale danno essere aiutata dall’arte, dalla letteratura?

Per me la letteratura è una forma di dialogo e il dialogo è assolutamente necessario in posti in cui è assente. Nella mia nazione, nel medio oriente, non c’è stato dialogo per decenni. Parlando di Israele e Palestina, non si conoscono davvero l’un l’altro ma vedono solo il riflesso della paura dell’altro. La letteratura aiuta a vedere la realtà dal punto di vista dell’altro, del nemico in questo caso. Non penso che i Palestinesi siano i “cattivi” e noi i “buoni” o viceversa ma se guardo me stesso attraverso i loro occhi e, sfortunatamente, noi siamo i loro nemici, vedo cose che forse non vorrei vedere. Vedo quanto possiamo essere aggressivi e brutali e la facilità con cui a volte abbandoniamo i nostri valori fondamentali. È sempre l’altro che nota per primo il processo che attraversiamo. Se scrivo un romanzo a proposito dello stato di occupazione (Palestina - Israele), improvvisamente capisco che la realtà non è solo quello che vedo. È molto più complessa. Vorrei raccontare una storia a proposito del rapporto tra guerra e letteratura: Durante la prima guerra in Libano, attorno al 1982, ero un soldato. Ero in Libano e ho fatto ciò che fa un soldato durante la guerra ma ricordo che ogni sera andavo sulla veranda dell’edificio in cui stavamo di fronte al confine con la Siria e portavo con me un libro di Romain Gary “La promessa dell’alba”, un libro che scoprii a 16 anni e che continuo a leggere periodicamente da allora. Ogni notte prima che il sole tramontasse andavo in veranda senza armi e senza elmetto. La veranda dava sul villaggio ed era rischioso essere disarmati poiché la gente del posto ci era ostile. Sette dei nostri furono uccisi durante le 6 settimane che trascorremmo lì. Pensavo che se mi fossi messo lì a leggere, anche se per poco, sarei stato protetto perché ricordavo chi ero prima di andare in guerra e ricordavo da chi volevo tornare quando saremmo rientrati in patria. Sentivo che il potere della letteratura era il contrario di quello della guerra. La guerra ci annulla, ci rende senza volto mentre i libri ci rendono unici. Quando leggiamo un buon libro riacquistiamo il nostro volto, sentiamo di essere di nuovo umani.

La prossima domanda che volevo porre riguarda il rapporto tra dolore, pubblico e privato, e la creatività. In un paese come Israele che conta quanti, 5 milioni di abitanti?

Sette, li contiamo ogni mattina. 

In soli 7 milioni ci sono tre grandi scrittori (Grossmann, Abraham Yehoshua, Amos Oz) ed è quasi spettacolare che tre scrittori così grandi seppur diversi vivano nello stesso tempo. È un po’ un paradosso che viene spiegato simpaticamente anche in un film di Orson Welles in cui uno dei personaggi dice: “Guarda l’Italia del Rinascimento: congiure, tumulti, guerre civili e assassinii ma hanno avuto Michelangelo, Raffaello e Leonardo. La Svizzera in 500 anni di pace cosa ha prodotto? L’orologio a cucù.” C’è una spiegazione? Senti una pressione come scrittore da parte di ciò che accade?

Innanzitutto viviamo in una situazione davvero estrema e in un certo senso anche solo questo ti stimola a reagire ad essa. Ci sono molti bravi scrittori in Israele, non tutti conosciuti al pubblico italiano. Qualcosa nella vita che viviamo ci stimola a scrivere ma non è sempre una cosa positiva perché l’elemento drammatico, la storia, è davanti ai tuoi occhi e spesso non devi fare nessuno sforzo per scriverla ma questo non rende necessariamente una buona e profonda letteratura. Raccontare storie fa parte della tradizione ebraica, siamo sempre stati il popolo del libro a partire addirittura dalla Bibbia stessa. Veniamo istruiti fin da piccoli a leggere la realtà attraverso le storie. Mio padre quando aveva tre anni iniziò a leggere con la Torah, imparò che la vita è un testo che va decodificato, che ogni realtà è un testo in codice. Attorno alla metà del ‘900 gli scrittori ebbero un ruolo moto importante nella nostra politica. Nel primo Congresso Sionista in cui venne fuori la prima idea dello Stato di Israele, che fu poi creato quasi cinquant’anni dopo, cinque delle otto persone sul palco erano scrittori e solo tre erano politici. Ora ovviamente accade il contrario.

Voi scrittori ma soprattutto tu nello specifico vi sentite parte di qualcosa di collettivo? Sentite di esprimere attraverso le vostre pagine qualcosa che sta davvero nella storia, nel presente di un popolo?

Io sento di essere parte di una collettività ebraica. Israele è l’unico posto al mondo in cui mi sento davvero a casa perché anche le cose che detesto so da dove vengono. In qualsiasi altro posto sono uno straniero e questo è il motivo per cui voglio stare in Israele nonostante le critiche che porto al governo e alle forze armate. Noi ebrei non ci siamo mai sentiti a casa nel mondo. Quello che sta accadendo ora è molto importante perché se si riesce a sistemare questa situazione allora Israele sarà la nostra casa e in questo senso io voglio far parte di Israele e della sua collettività. Allo stesso tempo penso sia mio diritto e un mio dovere esprimere ciò che penso e credo. Attraverso le parole che io uso possa ricordare alle persone che mi leggono in Israele la nostra identità che è stata distorta negli ultimi 45 anni da quando è iniziata l’occupazione ed io insisto nel vedere l’occupazione come la ragione principale che ha portato a questo tragico errore in cui Israele e i Palestinesi sono intrappolati ora. Per me è davvero importante che dopo 200 anni noi si possa avere un posto che possiamo chiamare casa, dopo essere stati esiliati, perseguitati, odiati, dopo l’olocausto, sebbene circondati da persone che ancora ci odiano. Non mi faccio illusioni, so cosa pensano e scrivono di noi nei paesi arabi e so che stiamo ancora lottando ma vedo ciò che abbiamo creato è innanzitutto una democrazia. Gli ebrei che sono venuti in Israele non avevano mai vissuto in una democrazia, venivano dalla Polonia, dall’Armenia, dalla Russia, dall’Egitto, dall’Iraq e non sapevano nulla della democrazia ma nonostante questo ne abbiamo creata una. Abbiamo libertà di stampa e di parola, una grande cultura, una buona industria e un esercito che ci può proteggere. Vi invito ancora una volta a pensare che potremmo non aver avuto questo Stato, questa casa che ci piace tanto criticare. A volte penso che se un angelo fosse apparso a mio nonno, che viveva in Polonia e gli avesse mostrato anche poco di ciò che sarebbe venuto negli anni successivi, se gli avesse mostrato che avremmo potuto sederci a tavola e mangiare verdure coltivate in Israele, pane preparato in Israele, che avremmo avuto dei giornali e che avremmo parlato la lingua ebraica come lingua madre, avrebbe pensato che l’angelo fosse impazzito. Ecco perché ancora una volta vi invito a soffermarvi sulle sfumature di una situazione molto complessa.

Da questo punto di vista, come hai vissuto in questi anni le trasformazioni che hanno riguardato i paesi arabi soprattutto dalla primavera scorsa a questa, dalla primavera della speranza araba al rischio che invece prevalgano le derive islamiste o fondamentaliste? Hai più speranza o timore riguardo ciò che accade attorno ai confini di Israele?

In realtà non so cosa pensare. Ero molto speranzoso il 25 gennaio scorso quando gli studenti egiziani iniziarono a ribellarsi alla loro dittatura. Li abbiamo visti in televisione e pensammo, sbagliando, che ciò che vedevamo fosse la realtà ma quegli studenti erano meno dell’1% della popolazione egiziana. La maggior parte della popolazione egiziana, che è composta da quasi 18 milioni di persone, non è particolarmente a favore della democrazia ma sono invece molto influenzati dai fondamentalisti e così fu un’amara sorpresa quella di assistere all’ascesa dei Fratelli Musulmani dopo Mubarak. Spero che l’Egitto inizi a dirigersi verso una forma di governo più democratica, non sarà forse una democrazia come la intendiamo in occidente ma spero che ne sarà una loro variazione. Spero per loro che possano vivere una vita libera. Per me la democrazia non vuol dire governo dei più ma vuol dire prendersi cura dei diritti delle minoranze. Per dirla breve, non so verso cosa si stia andando, non so a cosa porteranno questi cambiamenti proprio perché non lo sanno neanche gli egiziani né i siriani.

Siamo arrivati al momento dell’ultima domanda purtroppo. Per ricollegarci anche a quello che si diceva all’inizio sull’attività dell’associazione “L’Aquila Fenice” e Minimondi, l’ultima domanda riguarda la tua attività di scrittore per ragazzi. In passato ho letto capolavori come “Ci sono bambini a zig-zag”, “Qualcuno con cui correre”. La tua è un’attività rara, in Italia è raro che un grande scrittore scriva anche per bambini mentre in Israele è un po’ più consueto. Perché è importante scrivere per bambini? Oltre al fatto di dare la possibilità anche a lettori più giovani di trovare qualcosa alla loro portata. Prima dicevi che tuo padre imparò a leggere con la Torah che, con tutto il rispetto, è una bellissima lettura ma forse cominciare a leggere leggendo la Torah… Capisco il tentativo generoso di offrire alternative ma…

Devo dirlo, le storie della Torah sono davvero bellissime, è grande letteratura

Si le storie sono belle ma i finali…

Ho iniziato a scrivere per bambini quando nacque il mio primo figlio. Mia moglie mi ha insegnato che fin dall’inizio della vita di un bambino bisognerebbe leggere per lui. Mi ricordo di essermi messo lì a leggere per i miei figli quando avevano appena 3 settimane per lasciare che si abituassero alla melodia del raccontare una storia. È davvero una melodia speciale raccontare una storia ad un bambino. Quando una madre o un padre si siedono con i loro figli e leggono per loro, la storia che leggono può essere un meraviglioso punto d’incontro tra il genitore e il figlio. Può legittimare cose alle quali non sono abituati durante la vita di tutti i giorni come l’umorismo, il senso del surreale, una lingua speciale. Il libro permette al figlio di vedere la propria madre o il proprio padre anche come bambini perché quando gli leggiamo un buon libro possiamo diventare tali. Non abbiamo più la responsabilità di essere il padre o la madre.

traduzione di Ernesto Fanfani


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