Una comitiva di giovani pakistani arriva alla mensa di Celestino, mentre associazioni lanciano l’allarme sulla mancanza di strutture e la crescita dei flussi via social e chat.
Un gruppo di cinque giovani originari del Pakistan ha fatto la sua comparsa nella serata all’interno della mensa gestita da Fraterna Tau a L’Aquila, dove nei giorni precedenti erano già stati accolti altri connazionali in transito. Le organizzazioni del terzo settore e gli operatori impegnati sul posto segnalano con preoccupazione il rischio che, nel giro di pochi giorni, possano manifestarsi nuovi arrivi massicci e che si configurino gruppi consistenti costretti a passare la notte all’aperto, dato che in città non esistono strutture adeguate per la loro accoglienza.
Secondo quanto dichiarato da Paolo Giorgi, responsabile della Fraterna Tau, “già sono informati su come funziona il percorso: arrivo in città, presentazione in Questura per la richiesta d’asilo, poi pranzo e cena alla mensa, ambienti con docce, scarpe, coperte, e infine l’attesa per il trasferimento nei Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS)”. L’inverno alle porte aggrava una situazione già segnata da condizioni climatiche rigide: “Qui fa estremamente freddo”, aggiunge Giorgi, esplicitando la necessità urgente di un dormitorio che possa garantire un rifugio notturno.
Un elemento rilevante della vicenda riguarda l’effetto dei social network e delle piattaforme di messaggistica istantanea nel generare flussi: essi avrebbero favorito un “passaparola” fra migranti e rifugiati che identifica L’Aquila come meta. Il fenomeno è stato messo in luce anche dall’articolo di Tom Kington per The Times, intitolato How social media turned a small Italian city into a migration hotspot.
Giorgi sottolinea l’ampio percorso di sofferenza che caratterizza questi arrivi: “Hanno viaggiato per cinque o sei mesi a piedi, con prigionie, maltrattamenti, ricatti. Arrivano a Trieste e anziché essere accolti come previsto, vengono liberati e lasciati muoversi verso il Sud. Alcuni giungono all’Aquila, che dista ancora un migliaio di chilometri, e diventa un centro di primo approdo e smistamento”. In questo quadro, emerge una riflessione sulla numerosità reale di persone “invisibili” disseminate lungo il territorio italiano: “Mi chiedo dove vadano tutti gli altri, quanti siano, chi siano”, afferma il rappresentante delle associazioni.
Alla luce delle carenze strutturali, le associazioni richiedono soluzioni rapide: la creazione di un centro simile a quello di Lampedusa o comunque di un hub specifico lungo la frontiera nord-est, per garantire accoglienza e controllo del fenomeno. “È questione di civiltà, di sicurezza e di umanità”, conclude Giorgi.