L'Irpinia e noi. Viaggio in un altro cratere sismico

Una casa per le parole

23 Gennaio 2010   09:47  

Lungo la valle del Sele in Irpinia c'era un'anziana coppia seduta su una panchina, che guardava la luna alla vigilia dell'apocalisse.''Antò – chiese lei - ma secondo te quanto è grande la luna?'', ''Assai, assai – rispose lui - almeno due giorni di aratura di buoi''. L'aneddoto lo racconta Mino De Vita, scrittore e collega post-terremotato e che ci accompagna lungo la sua Irpinia trent'anni dopo il sisma, e suggerisce una domanda importante anche per la ricostruzione abruzzese: esiste ancora quella panchina? E' stata restituita una casa alle parole che sgorgano da una terra come l'acqua dalle sorgenti?

A L'Aquila nella notte del sei aprile tante sono state infatti le stragi di parole. A San Gregorio ad esempio è venuto giù l'antico mulino, e insieme a Tommaso e Domenica, custodi di quel tempio consacrato al pane, sotto le macerie sono rimasti i giri lenti delle macine e delle retrècine, la gorgogliante raffòtta, la tramoggia nel cui occhio scompariva il grano solina, e il cècere di terracotta, crivelli, svecciatrici e falci messorie, il torturo per legare i manoppi, coppe e copponi che misuravano la parte di raccolto e il sudore di un anno.
Conza antiquissima civitas, si legge su un cartello all'ingresso del paese irpino che Mino tiene a farci visitare: una sfilza di villette scandite da aliene e frivole installazioni artistiche, curatissime rotonde d'ampio raggio, realizzate anche se a Conza, dopo il terremoto, non c'è stato un vertice del G8.Infine quattro vecchi che giocano a tressette a margine di un'enorme e deserta piazza di cemento rettangolare. Silenziose e metafisiche presenze in un quadro di De Chirico.

La vecchia Conza spianata dal sisma è diventata invece un parco archeologico, dove i mozziconi di case con soffitti di cielo e nuvole di passaggio, possono essere ammirati dai turisti insieme ai vicini reperti di età romana. L'umile fondaco dove la signora Maria spennava le galline, assurge così oggi a vestigia del passato come i resti del tempio dove gli aruspici leggevano il volo degli uccelli.

Potrebbe essere questo il destino del cratere sismico abruzzese e di decine di borghi medievali distrutti, dove l'orologio è ancora fermo alla notte del sei aprile, le macerie attendono compostamente la rimozione, ad ogni scossa le crepe si allargano e dove, lontano dalle passerelle mediatiche, regna il silenzio.

Borghi dietro i cui portoni attendono i soccorsi oggetti che raccontano e parole della consistenza del legno, del ferro e della lana: il munature, bastone per rompere il caglio e che profuma di latte, il càccame, pentolone dentro cui si compiva l’alchimia quotidiana che mutava le trecento erbe e fiori del Gran Sasso in pecorino, il mazze, clava per conficcare i pali degli stazzi, l’angìnee il tascappane, il bastone e la borsa dei pastori transumanti.

Solo per i puntellamenti e la rimozione delle macerie serviranno oltre cento milioni di euro. Per la ricostruzione dei centri storici con le loro oltre mille tra chiese, torri, castelli e palazzi monumentali, serviranno decine di miliardi di euro. Parte di questo immenso patrimonio artistico, rischia così di essere perduto per sempre, sostituito da tromp d'oil dell'identità collettiva, o abbandonato per mancanza di fondi in un Paese che scivola gaudente verso la bancarotta fraudolenta e l'ignorantocrazia, e dove ci sono 3,5 milioni di persone che non hanno soldi per comprare da mangiare.

Torniamo in Irpinia, per capire l'Abruzzo. A dominare la valle, sul punto più alto di Calabritto, c'è un'ambiziosa variazione stilistica di un cubo di cemento che ha sostituito la cattedrale sbriciolata dal sisma. '' I giovani ci sono abituati - spiega Mino - ai vecchi non piace, dicono che era più bella la chiesa di prima. Però chissà, tra cento anni sarà considerata un capolavoro...''.

Ancora a Calabritto una selva di surreali condomini di campagna trafigge il panorama della valle. Dentro ci hanno impilato centinaia di sfollati. Provvisoriamente, perché in eterno non si vive. ''Quei palazzoni sono figli della fretta – spiega Mino – il paese fu ricostruito in tempi record, ma non c'entra nulla con quello che c'era prima''.

Tutto fu catalogato come maceria indistinta e senza storia, da far sparire, rimuover in gran fretta come fosse il frutto di un peccato.
E così fu facile per maestranze disoneste rubare dai cantieri le antiche pietre scolpite, gli elementi di pregio architettonico, come stemmi, cariatidi e rosoni, bifore e bertesche, astragali e capitelli, che ora fanno bella mostra di sé nelle ville neocafonal della costa sorrentina e dell'agro romano.


Ci si può poi chiedere che differenza ci sia tra quel quartiere di case popolari atterrato tra i boschi irpini, e gli indistruttibili condomini di campagna del piano CASE spuntati nei pressi di Assergi, Camarda, Arischia, Paganica, Roio. Ci si può chiedere se in quei miracoli prefabbricati, troveranno casa le parole vere di questa terra, le parole di giovani semplici dal volto scolpito dal freddo, delle donne con lo sguardo di brace, che sono tutt'uno con ciascuna pietra del loro vicolo di paese, di anziane sensitive che si sono salvate dal terremoto interpretando i sogni, dando retta al nervosismo delle galline e ai lombrichi che emergevano dal sottosuolo, dei poeti a braccio che conoscono la Divina commedia a memoria. Le parole del cantautore Giampaolo Piccinini, che all'indomani del sisma ha preso una chitarra, si è seduto su un muro crollato e si è messo a cantare: ''Rataplan - qui non la smette e Salomé chiama alle danze i lampadari - rataplan - senza pagare ci si squaglia - tutti in rotta lungo i moli oscuri della faglia - rataplan rataplan - tutti a passeggio che per le strade della civiltà sgorgano i topi dalla terra - il sangue invoca l’aria aperta - i campanili giocano alla guerra''.

Con Mino arriviamo alla sua Senerchia. Il paese è stato ricostruito ex-novo, ma la trama urbanistica è la stessa del paese distrutto dal sisma, con vicoli, archi, piazzette e case gradevoli alla vista ed alte massimo due piani. Nella vicina Valva, girando per i vicoli, si osservano poi tanti numeretti sugli gli elementi di pregio architettonico, che hanno consentito di ricostruire come un puzzle
lapideo l'antico borgo nei limiti del possibile così com'era.


'La ricostruzione dell'Irpinia – confessa Mino - è stata una storia di truffe e devastazioni. I soldi arrivati a fiumi hanno avvelenato
l'anima di molti, sono state realizzate opere grandi solo per la loro inutilità, il fondo valle del Sele è stato invaso da capannoni industriali ora in buona parte lasciati alle ortiche, perchè nati da un modello di sviluppo estemporaneo e non radicato con la vocazione del territorio''.

'' La legge – spiega ancora Mino – finanziava le iniziative industriali del cratere sismico prevedendo a carico dello stato l'intero onere d'impianto delle aziende nascenti, gli industriali sono stati esonerati del tutto nel versamento degli oneri fiscali e sociali. L'occupazione è così cresciuta nei primi anni novanta ma ha avuto breve durata. Lo spettacolo misero e angosciante che si mostra ai nostri occhi, oggi, è quello di una serie di mostri di lamiera che giacciono arruginiti e inoperosI''

Le parole di Mino suonano come un oscuro, ma purtroppo realistico presagio. Mino se ne accorge e aggiunge: '' Dove la gente però è rimasta a vivere vicino alle sue macerie vivendo per anni in villaggi di legno, evitando la diaspora e lo sradicamento, dove la comunità ha partecipato alla ricostruzione animata dall'amore per la propria terra, di scempi non ne sono stati commessi e i nostri paesi li abbiamo ricostruiti''.

Poco lontano lungo la valle del Sele, gli anziani chiacchierano fuori l'uscio di casa, i bambini corrono nei vicoli, una giovane coppia seduta su una panchina ride e osserva la luna. Le parole hanno ritrovato una casa.

Filippo Tronca

Già pubblicato per la rivista trimestrale MU6

 

 


Galleria Immagini

Oroscopo del Giorno powered by oroscopoore