Di Jacopo Viciani da La Voce.info
La Banca Mondiale chiede ai paesi industrializzati di destinare lo 0,7 per cento dei pacchetti anticrisi per interventi a sostegno di infrastrutture e welfare nei paesi in via di sviluppo più esposti. E alcune nazioni aumentano di conseguenza gli stanziamenti. Non l'Italia, dove la progressiva riduzione delle risorse rischia di togliere alla struttura di cooperazione qualsiasi incentivo a riformarsi. Soprattutto, manca un impegno politico esplicito e coerente. Sugli aiuti allo sviluppo, l'Italia agisce come una economia piccola o in transizione, non da presidente del G8.
Alla fine del 2008, tutti i paesi industrializzati avevano riconfermato, in sede Nazioni Unite e Ocse, l’impegno a un progressivo aumento dei volumi d’aiuto i paesi in via di sviluppo, per non aggravare la fuga di capitali da economie vulnerabili e già in difficoltà. Con l’inizio del 2009 l'unanimità Ocse è svanita.
CHI AUMENTA E CHI DIMINUISCE L'AIUTO
La Banca Mondiale ha chiesto ai paesi industrializzati di destinare lo 0,7 per cento
delle risorse stanziate dai provvedimenti nazionali anticrisi per
interventi a sostegno di infrastrutture e welfare di base nei 43 paesi
in via di sviluppo più esposti alla crisi. (1)
Svizzera, Spagna, Giappone e Germania aumenteranno
l’aiuto con somme tra i 100 e 500 milioni di euro. Il Giappone prevede
di incrementare del 50 per cento gli aiuti destinati al Sud-Est
asiatico, il governo svizzero punta allo stesso incremento e la Spagna
aumenterà i prestiti a Pvs, a condizione però che la realizzazione
degli interventi sia affidata a imprese spagnole. Anche Francia e Regno
Unito hanno confermato un progressivo aumento della percentuale di
aiuto sul Pil. Infine, la prima finanziaria della presidenza Obama
chiederà al Congresso una crescita del 10 per cento degli aiuti ai
paesi in via di sviluppo.
Altri paesi europei, soprattutto le economie di piccole dimensioni o emergenti, iniziano invece a tagliare
gli aiuti. Il governo irlandese li ha decurtati del 10 per cento, ma vi
destinana ancora lo 0,53 per cento del suo Pil. La Repubblica Ceca sta
considerando una significativa riduzione, mentre la Lituania ha
completamente azzerato gli aiuti.
Già a fine settembre, ben prima delle piccole economie europee, l’Italia
ha tagliato del 56 per cento gli stanziamenti della cooperazione allo
sviluppo gestiti dal ministero degli Esteri, dimezzandone l’incidenza
sul bilancio dello Stato, che ha continuato a crescere del 3 per cento.
Nell’anno della presidenza italiana del G8, si stima che nel 2009
l’aiuto pubblico allo sviluppo del nostro paese potrebbe raggiungere al
massimo 1,7 miliardi circa di euro, lo 0,11- 0,12 per cento del Pil, quasi dimezzandosi rispetto ai livelli già insufficienti del 2008. (2)
Si tratta di risorse limitate, frutto di scelte politiche più vicine a
quelle di economie europee molto piccole o in transizione che a quelle
di un membro del G7.
Riconoscendo apertamente le proprie debolezze
finanziarie, e per giustificarsi di fronte all’opinione pubblica
internazionale, la cooperazione italiana ha dichiarato di volere
puntare sul miglioramento della qualità dell’aiuto, attraverso una maggiore concentrazione degli interventi.
POCHI AIUTI E TANTI PAESI
Secondo la nuova programmazione triennale
(2009-2011), all’Africa sub-sahariana sarà destinato il 50 per cento
dell’aiuto bilaterale, seguita dall’area “Mediterraneo-Balcani” e
America Latina. Le nuove quote geografiche programmate non riflettono
le tendenze consolidate nel 2006-2007: in quel periodo l’area “Balcani,
Mediterraneo e Medio Oriente” ha ricevuto il 45 per cento degli
esborsi, al netto del debito, contro il 25 per cento previsto per il
prossimo triennio. (3) Unito alla contrazione delle
risorse finanziarie complessive, tutto ciò si dovrebbe tradurre in una
sostanziale riduzione dell’impegno finanziario italiano assoluto
nell’area.
La programmazione triennale indica 58 paesi quali
potenziali candidati a ricevere l’aiuto pubblico allo sviluppo del
nostro paese: una riduzione significativa rispetto alle 94 nazioni del
2007. Lo sforzo di concentrazione replica processi
simili in atto in altri paesi europei, anche se la lista italiana resta
ben più lunga. Nel 2007 la Spagna ha indicato 52 possibili paesi
partner; la Svezia ha stabilito una lista di 33 partner, mentre la
Finlandia si limita a otto.
Tuttavia, la cooperazione italiana non chiarisce quali siano stati i criteri
per la selezione dei paesi prioritari del suo intervento. Secondo uno
studio pubblicato dall’istituto di ricerca delle Nazioni Unite per lo
sviluppo economico, la nostra cooperazione sembra concentrarsi su paesi
piccoli, con una distribuzione dei redditi più egualitaria, maggiori
libertà civili e bassa mortalità infantile. (4)
Secondo uno studio della cooperazione francese, invece, l’Italia non
utilizzerebbe alcun criterio selettivo nella scelta dei partner. (5)
Si abbozza anche una strategia di selezione e concentrazione dell’impegno verso le organizzazioni multilaterali:
erano circa cinquanta quelle che nel 2008 hanno beneficiato di
contributi italiani. Tra i criteri per la selezione, figura
l’“italianità” della sede dell’organismo internazionale. Sembra una
contraddizione in termini, ma è così. Avere la sede in Italia è
considerata condizione sufficiente perché l’organizzazione rappresenti
un vantaggio comparato per la nostra cooperazione. La programmazione
non fa alcun riferimento all’opportunità di valutare l’efficacia delle
singole organizzazioni multilaterali in modo oggettivo, come invece
fanno altri paesi Ocse.
SE MANCA LA COERENZA
La cooperazione italiana dichiara di voler contribuire a garantire l’efficacia dell’intero processo di sviluppo. (6)
Ma nella programmazione non si fa alcun riferimento alla necessità di
assicurare la coerenza delle politiche di relazioni esterne
dell’Italia, commerciali o migratorie ad esempio, con gli obiettivi di
sviluppo dei paesi partner, come invece si sono impegnati a fare tutti
gli Stati membri dell’Unione nel 2005.
L’Italia non si è ancora
dotata di uno strumento di coordinamento tra le differenti agende
ministeriali. Ma soprattutto manca un chiaro ed esplicito impegno
politico a far sì che in caso di conflitto di scopo tra le differenti
politiche, gli obiettivi di sviluppo siano considerati prioritari.
Proprio
a causa di questa lacuna, alcune recenti scelte di politica estera e
interna sembrano già compromettere il precedente tentativo di
miglioramento della qualità geografica della cooperazione, evidenziando
il deficit di coerenza e coordinamento istituzionale.
La firma del trattato Italia-Libia
prevede un esborso annuale di 200 milioni circa per finanziare
interventi, classificabili come aiuto, per venticinque anni: così, però
l’area “Balcani-Mediterraneo” sorpassa nuovamente l’Africa
sub-sahariana. Contemporaneamente, il disegno di legge “Disposizioni
per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché
in materia di processo civile” prevede di rendere più semplice avviare,
realizzare e, implicitamente, favorire interventi di cooperazione in
quei paesi che abbiano sottoscritto accordi di rimpatrio
o di collaborazione nella gestione dei flussi dell’immigrazione
clandestina. E che non necessariamente fanno parte dei 58 paesi
prioritari.
La sfida per migliorare efficacia e qualità dell’aiuto
non può essere affrontata come opzione di ripiego a fronte della
scarsità dei fondi disponibili. Anzi, la progressiva riduzione delle
risorse finanziarie rischia di togliere alla struttura di cooperazione
qualsiasi incentivo per riformarsi, investendo nel futuro. Senza il
pieno coinvolgimento delle leadership ministeriali, qualsiasi
dichiarazione sul miglioramento dell’efficacia è molto probabilmente
destinata a produrre risultati non duraturi e a palesarsi in modo
imbarazzante come un semplice esercizio di pubbliche relazioni per
distrarre l’opinione pubblica internazionale dai suoi problemi
quantitativi. Il dato più evidente in questo momento è che, rispetto
alle quantità d’aiuto, l’Italia agisce da economia piccola o in
transizione, non da presidente del G8.
Postilla dell'autore
A fine marzo sono usciti i nuovi dati OCSE sull'aiuto per l'anno 2008.
Secondo
il l DPEF 2008/2011, il rapporto APS/PIL del nostro Paese doveva essere
lo 0,33% nel 2008 e invece si attesta allo 0,20%, l'ultimo paese
nell'Europa dei 15 assieme alla Grecia, un punto percentuale in più
rispetto al 2007.
Le quote di Aiuto Pubblico allo Sviluppo
continuano a essere falsate dalla contabilizzazione della cancellazione
del debito dei Paesi in via di sviluppo; per il 2008, al netto delle
cancellazioni, si è passati dallo 0,16% del 2007 allo 0,15% di APS/PIL.
In termini reali, c'è stata una riduzione di 100 milioni di dollari sui
valori per l'APS nel periodo 2007-2008.
Prendendo in considerazione
gli impegni di aumento presi più volte nel passato e poi disattesi, si
tratta di ormai di un buco stimabile in 3 miliardi di dollari per il
2008. I dai DAC continuano ad essere un pessimo biglietto da visita per
il Paese che quest'anno è alla guida del G8 e mettono in dubbio il
contributo dell'Italia per arginare gli effetti della crisi globale nei
paesi a basso reddito.