L'Italia gaudente che non aiuta il terzo mondo

09 Luglio 2009   13:02  

ITALIA IN CONTROTENDENZA SUGLI AIUTI ALLO SVILUPPO

Di Jacopo Viciani da La Voce.info

La Banca Mondiale chiede ai paesi industrializzati di destinare lo 0,7 per cento dei pacchetti anticrisi per interventi a sostegno di infrastrutture e welfare nei paesi in via di sviluppo più esposti. E alcune nazioni aumentano di conseguenza gli stanziamenti. Non l'Italia, dove la progressiva riduzione delle risorse rischia di togliere alla struttura di cooperazione qualsiasi incentivo a riformarsi. Soprattutto, manca un impegno politico esplicito e coerente. Sugli aiuti allo sviluppo, l'Italia agisce come una economia piccola o in transizione, non da presidente del G8.

Alla fine del 2008, tutti i paesi industrializzati avevano riconfermato, in sede Nazioni Unite e Ocse, l’impegno a un progressivo aumento dei volumi d’aiuto i paesi in via di sviluppo, per non aggravare la fuga di capitali da economie vulnerabili e già in difficoltà. Con l’inizio del 2009 l'unanimità Ocse è svanita.

CHI AUMENTA E CHI DIMINUISCE L'AIUTO

La Banca Mondiale ha chiesto ai paesi industrializzati di destinare lo 0,7 per cento delle risorse stanziate dai provvedimenti nazionali anticrisi per interventi a sostegno di infrastrutture e welfare di base nei 43 paesi in via di sviluppo più esposti alla crisi. (1)
Svizzera, Spagna, Giappone e Germania aumenteranno l’aiuto con somme tra i 100 e 500 milioni di euro. Il Giappone prevede di incrementare del 50 per cento gli aiuti destinati al Sud-Est asiatico, il governo svizzero punta allo stesso incremento e la Spagna aumenterà i prestiti a Pvs, a condizione però che la realizzazione degli interventi sia affidata a imprese spagnole. Anche Francia e Regno Unito hanno confermato un progressivo aumento della percentuale di aiuto sul Pil. Infine, la prima finanziaria della presidenza Obama chiederà al Congresso una crescita del 10 per cento degli aiuti ai paesi in via di sviluppo.
Altri paesi europei, soprattutto le economie di piccole dimensioni o emergenti, iniziano invece a tagliare gli aiuti. Il governo irlandese li ha decurtati del 10 per cento, ma vi destinana ancora lo 0,53 per cento del suo Pil. La Repubblica Ceca sta considerando una significativa riduzione, mentre la Lituania ha completamente azzerato gli aiuti.
Già a fine settembre, ben prima delle piccole economie europee, l’Italia ha tagliato del 56 per cento gli stanziamenti della cooperazione allo sviluppo gestiti dal ministero degli Esteri, dimezzandone l’incidenza sul bilancio dello Stato, che ha continuato a crescere del 3 per cento. Nell’anno della presidenza italiana del G8, si stima che nel 2009 l’aiuto pubblico allo sviluppo del nostro paese potrebbe raggiungere al massimo 1,7 miliardi circa di euro, lo 0,11- 0,12 per cento del Pil, quasi dimezzandosi rispetto ai livelli già insufficienti del 2008. (2) Si tratta di risorse limitate, frutto di scelte politiche più vicine a quelle di economie europee molto piccole o in transizione che a quelle di un membro del G7.
Riconoscendo apertamente le proprie debolezze finanziarie, e per giustificarsi di fronte all’opinione pubblica internazionale, la cooperazione italiana ha dichiarato di volere puntare sul miglioramento della qualità dell’aiuto, attraverso una maggiore concentrazione degli interventi.

POCHI AIUTI E TANTI PAESI

Secondo la nuova programmazione triennale (2009-2011), all’Africa sub-sahariana sarà destinato il 50 per cento dell’aiuto bilaterale, seguita dall’area “Mediterraneo-Balcani” e America Latina. Le nuove quote geografiche programmate non riflettono le tendenze consolidate nel 2006-2007: in quel periodo l’area “Balcani, Mediterraneo e Medio Oriente” ha ricevuto il 45 per cento degli esborsi, al netto del debito, contro il 25 per cento previsto per il prossimo triennio. (3) Unito alla contrazione delle risorse finanziarie complessive, tutto ciò si dovrebbe tradurre in una sostanziale riduzione dell’impegno finanziario italiano assoluto nell’area.
La programmazione triennale indica 58 paesi quali potenziali candidati a ricevere l’aiuto pubblico allo sviluppo del nostro paese: una riduzione significativa rispetto alle 94 nazioni del 2007. Lo sforzo di concentrazione replica processi simili in atto in altri paesi europei, anche se la lista italiana resta ben più lunga. Nel 2007 la Spagna ha indicato 52 possibili paesi partner; la Svezia ha stabilito una lista di 33 partner, mentre la Finlandia si limita a otto.
Tuttavia, la cooperazione italiana non chiarisce quali siano stati i criteri per la selezione dei paesi prioritari del suo intervento. Secondo uno studio pubblicato dall’istituto di ricerca delle Nazioni Unite per lo sviluppo economico, la nostra cooperazione sembra concentrarsi su paesi piccoli, con una distribuzione dei redditi più egualitaria, maggiori libertà civili e bassa mortalità infantile. (4)  Secondo uno studio della cooperazione francese, invece, l’Italia non utilizzerebbe alcun criterio selettivo nella scelta dei partner. (5)
Si abbozza anche una strategia di selezione e concentrazione dell’impegno verso le organizzazioni multilaterali: erano circa cinquanta quelle che nel 2008 hanno beneficiato di contributi italiani. Tra i criteri per la selezione, figura l’“italianità” della sede dell’organismo internazionale. Sembra una contraddizione in termini, ma è così. Avere la sede in Italia è considerata condizione sufficiente perché l’organizzazione rappresenti un vantaggio comparato per la nostra cooperazione. La programmazione non fa alcun riferimento all’opportunità di valutare l’efficacia delle singole organizzazioni multilaterali in modo oggettivo, come invece fanno altri paesi Ocse.

SE MANCA LA COERENZA

La cooperazione italiana dichiara di voler contribuire a garantire l’efficacia dell’intero processo di sviluppo. (6) Ma nella programmazione non si fa alcun riferimento alla necessità di assicurare la coerenza delle politiche di relazioni esterne dell’Italia, commerciali o migratorie ad esempio, con gli obiettivi di sviluppo dei paesi partner, come invece si sono impegnati a fare tutti gli Stati membri dell’Unione nel 2005.
L’Italia non si è ancora dotata di uno strumento di coordinamento tra le differenti agende ministeriali. Ma soprattutto manca un chiaro ed esplicito impegno politico a far sì che in caso di conflitto di scopo tra le differenti politiche, gli obiettivi di sviluppo siano considerati prioritari.
Proprio a causa di questa lacuna, alcune recenti scelte di politica estera e interna sembrano già compromettere il precedente tentativo di miglioramento della qualità geografica della cooperazione, evidenziando il deficit di coerenza e coordinamento istituzionale.
La firma del trattato Italia-Libia prevede un esborso annuale di 200 milioni circa per finanziare interventi, classificabili come aiuto, per venticinque anni: così, però l’area “Balcani-Mediterraneo”  sorpassa nuovamente l’Africa sub-sahariana. Contemporaneamente, il disegno di legge “Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile” prevede di rendere più semplice avviare, realizzare e, implicitamente, favorire interventi di cooperazione in quei paesi che abbiano sottoscritto accordi di rimpatrio o di collaborazione nella gestione dei flussi dell’immigrazione clandestina. E che non necessariamente fanno parte dei 58 paesi prioritari.
La sfida per migliorare efficacia e qualità dell’aiuto non può essere affrontata come opzione di ripiego a fronte della scarsità dei fondi disponibili. Anzi, la progressiva riduzione delle risorse finanziarie rischia di togliere alla struttura di cooperazione qualsiasi incentivo per riformarsi, investendo nel futuro. Senza il pieno coinvolgimento delle leadership ministeriali, qualsiasi dichiarazione sul miglioramento dell’efficacia è molto probabilmente destinata a produrre risultati non duraturi e a palesarsi in modo imbarazzante come un semplice esercizio di pubbliche relazioni per distrarre l’opinione pubblica internazionale dai suoi problemi quantitativi. Il dato più evidente in questo momento è che, rispetto alle quantità d’aiuto, l’Italia agisce da economia piccola o in transizione, non da presidente del G8.

Postilla dell'autore

A fine marzo sono usciti i nuovi dati OCSE sull'aiuto per l'anno 2008.
Secondo il l DPEF 2008/2011, il rapporto APS/PIL del nostro Paese doveva essere lo 0,33% nel 2008 e invece si attesta allo 0,20%, l'ultimo paese nell'Europa dei 15 assieme alla Grecia, un punto percentuale in più rispetto al 2007.
Le quote di Aiuto Pubblico allo Sviluppo continuano a essere falsate dalla contabilizzazione della cancellazione del debito dei Paesi in via di sviluppo; per il 2008, al netto delle cancellazioni, si è passati dallo 0,16% del 2007 allo 0,15% di APS/PIL. In termini reali, c'è stata una riduzione di 100 milioni di dollari sui valori per l'APS nel periodo 2007-2008.
Prendendo in considerazione gli impegni di aumento presi più volte nel passato e poi disattesi, si tratta di ormai di un buco stimabile in 3 miliardi di dollari per il 2008. I dai DAC continuano ad essere un pessimo biglietto da visita per il Paese che quest'anno è alla guida del G8 e mettono in dubbio il contributo dell'Italia per arginare gli effetti della crisi globale nei paesi a basso reddito.


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