L'aggressività del bene

Editoriale pubblicato sul numero 0 de Il Cratere

05 Ottobre 2009   12:11  

Un certo disagio.
“Il Vangelo condanna chi chiacchiera e non fa fatti, ma premia chi agisce correttamente. Le auguro di poter continuare a fare del bene come ha fatto non solo a noi ma a tutta la nostra nazione”.
E’ solo un estratto delle parole che il Vescovo dell’Aquila mons. Giuseppe Molinari, ad Onna, ha deciso di indirizzare al presidente Silvio Berlusconi. Un bene enorme per gli aquilani, impossibile da ricambiare, esercitato durante questi quasi sei mesi di emergenza, tramite la protezione civile in tutti i modi possibili. Un bene che è riuscito ad ammansire, nel tempo delle tende,  anche molti tra gli aquilani più scorbutici. Un’assistenza totale poggiata sull’aspettativa (per quanti reale?) di una casa tutta nuova con lenzuola, mobili e champagne inclusi.
Terminata improvvisamente un giovedì di inizio Settembre per Piazza D’armi la prima delle tendopoli ad essere smembrata prima  dell’uscita di qualsiasi graduatoria d’assegnazione. Con l’unico scopo di ottenere di fronte al Paese il risultato politico della chiusura dei campi tenda nei tempi stabiliti. Sono 38 ora le persone rimaste che non hanno accettato la destinazione fuori città. “Persone con disagi”li chiama adesso la televisione e a tanti fa molto comodo crederlo. Forse a una città intera che li sta dimenticando lì. Eppure il campo era pieno di “bene” fino a quel giovedì quando qualcuno ha ordinato di porne bruscamente la fine. Adesso tra i “disagiati”, gli ultimi, non ci sono più neanche i preti. Sempre ad Onna il presidente della regione Gianni Chiodi ha dichiarato di non saperne niente di questa storia e che ora provvederà.Forse allora non ne sapeva niente nessuno vista l’assenza di qualsiasi figura istituzionale locale (comunale, provinciale o regionale) durante quei giorni in cui in maniera nauseante veniva smembrata Piazza D’Armi con un preavviso di 48 ore. Dentro solo esercito, protezione civile, polizia e degli sbigottiti psicologi (quasi tutte donne). Le tende, scenografia dello sfollato, venivano smontate a buon ritmo dai militari. A molti veniva chiesto dal pool di protezione civile e polizia che girava fogli alla mano, di fare la valigia senza sapere ancora la destinazione dove passare la notte.
In questa situazione tanti aquilani presidiavano con timore la propria tenda, ormai ultimo riparo da difendere. Anziani vissuti fianco a fianco con un migliaio di persone per 5 mesi, venivano lasciati soli in mano di persone provenienti da centinaia e centinaia di Km di distanza: “ora vai via, forse ad Avezzano. Per qualche tempo” gli veniva detto con accento di altre regioni. Tanti, arrabbiati, hanno risposto degnamente no mentre sulle rughe dei loro volti – tracce della memoria per questo territorio – si iscriveva un altro terremoto.
Sarà che è come la guerra, come cinicamente dice qualcuno, e che qualcun altro (che evidentemente non è mai lo stesso che fa tali similitudini belligeranti) bisogna sacrificarlo, ma a qualche volontario arrivato a Piazza D’Armi dalla protezione civile di chissà dove a fare del bene, si è contorto lo stomaco. Più in alto tra cuore e testa La domanda, atroce: “che cosa sto facendo”?
In un video reperibile su youtube La libertà d’informazione a L’Aquila un volontario afferma a telecamera nascosta: “A me no me ne può fregà di meno. Io sono un esecutore dove mi danno degli ordini perché mi pagano”. Gli ordini di cui parla sono impedire a delle persone di entrare a Piazza D’Armi durante lo sgombero. Sono amici di un aquilano del campo che risiedeva lì da 5 mesi in tenda 66 (Via Sicilia), rei probabilmente anche di fare informazione indipendente. L’arco temporale è quello in cui dentro più intensamente, si consumava “l’esperimento di Piazza D’armi”, ovvero come sgomberare un campo e risfollare o deportare le persone, testando la reazione di queste e della comunità aquilana tutta.
“Io mi dissocio” avrà ripetuto almeno tre volte a chi scrive una brava e simpatica psicologa conosciuta il giorno prima nella tendopoli mentre continuava a lavorare “per contenere – così si giustificava –  la rabbia e il disagio delle persone”. Le psicologhe venivano controllate dalla protezione civile attenta che non parlassero con persone sospette come i giornalisti indipendenti. Qualcuna però ha sabotato gli ordini in vari modi, altre si sono rifiutate di collaborare.
Quando altrimenti il comportamento si dissocia dalla coscienza non può non venire in mente quanto scritto dopo la seconda guerra mondiale da  Hannah Arendt riguardo “la banalità del male”. Un male banale perché non proveniente da un’indole maligna, ben radicata nell’anima, quanto piuttosto da una completa inconsapevolezza di cosa significhino le proprie azioni. A perpetrarlo secondo la Arendt può esserci benissimo una persona normale, semplicemente calata nella realtà che ha davanti: lavorare, cercare una promozione, riordinare numeri sulle statistiche.
Vale per tutti gli eserciti anche per quello “del bene” di Guido Bertolaso. Un bene la cui aggressività ormai è sempre più palese.

E’ possibile scaricare l’intero numero in pdf qui


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