Le Province da abolire e la politica tutta chiacchiere e distintivo

Inchiesta di Donato De Sena

28 Agosto 2011   09:29  

Ci avevano convinto bene tre anni e mezzo fa, sia la destra che la sinistra, sia il Popolo della Libertà che il Partito Democratico, sia Silvio Berlusconi che Walter Veltroni: “Le province vanno abolite, tutte, senza distinzione”, avevano ripetuto i due principali candidati premier alle ultime Elezioni Politiche durante la campagna elettorale. Quegli enti locali – spiegavano all’unisono i programmi delle coalizioni di centrodestra e centrosinistra che li sostenevano – sono inutili, un costo eccessivo per il bilancio dello Stato, un ostacolo per il miglioramento del funzionamento della Pubblica Amministrazione, un tassello da rimuovere nella costruzione della nuova architettura dell’apparato statale. La proposta della soppressione delle province era l’unico punto di incontro tra i due aspiranti alla poltrona di presidente del Consiglio. “Finalmente qualcosa li unisce”, si saranno sicuramente detti nei giorni di acceso confronto molti elettori nauseati dal clima di muro contro muro tra maggioranza e opposizione respirato durante i tormentati 20 mesi di governo dell’Unione di Romano Prodi. Illusione.

ADDIO ABOLIZIONE TOTALE - Oggi, il clima è cambiato. Di quella cancellazione non c’è traccia nei provvedimenti del governo alle prese con un equilibrio della finanza pubblica difficile da mantenere e in nome del quale l’abolizione delle province era stata sbandierata come una misura urgente da varare. Tanti i soldi che sarebbero stati risparmiati e destinati al risanamento, tanta l’efficienza guadagnata, tanta la fiducia dei cittadini che sarebbe stata conquistata dal comportamento virtuoso. Ma nel momento clou, nell’ultima manovra targata Giulio Tremonti, approvata dal Consiglio dei Ministri per fronteggiare il crollo nei nostri titoli di Stato, e scongiurare il rischio di un pericoloso avvicinamento al default finanziario, il governo ha deciso di sopprimere solo le province che accolgono un numero di abitanti inferiore ai 300mila. Un dietrofont. Erano state pattuglie nutrite di parlamentari Pdl, infatti, nel corso della legislatura, a premere per l’abolizione. Non con comizi, audizioni, o interrogazioni, con atti concreti. Le proposte di legge presentate alla Camera e al Senato, per intenderci.

SONO LONTANE DAI CITTADINI” - “La soppressione delle province è uno dei punti del programma con cui l’attuale coalizione di governo si è presentata agli elettori della primavera 2008, sollecitandone il consenso”, ricordava ad esempio il senatore del partito berlusconiano Domenico Benedetti Valentini nel suo disegno di legge costituzionale per la soppressione delle province, presentato nell’ottobre 2008. Il parlamentare, circa la cancellazione dei 110 enti presenti sul territorio nazionale, parlava di “esigenza diffusa e profonda dell’ordinamento istituzionale, avvertita ormai dalla larga maggioranza dell’opinione pubblica”. “A differenza del Comune – spiegava – che tutti riconosciamo livello di governo sentito come reale, percepibile, accessibile, identitario, dai cittadini, la provincia appare irrimediabilmente priva di questi caratteri”. E ancora, aggiungeva: “La soppressione, che deve riguardare tutte le province, per una precisa scelta di sistema, non soltanto alcune province o, come talvolta si sente dire, solo quelle inerenti alle ‘città metropolitane’, determinerà un drastico alleggerimento amministrativo territoriale”.

“FANNO CONFUSIONE” - Non era affatto solo, quel senatore. Anzi, godeva di ottima compagnia. Prima di lui era intervenuto, sulla sua stessa lunghezza d’onda, il collega Lamberto Dini, neo pidiellino, uno dei protagonisti della caduta dell’esecutivo di centrosinistra ed ex ministro del Tesoro, ex ministro degli Esteri, ex premier. “La provincia è un ente lontano dai cittadini – sentenziava il senatore Liberaldemocratico eletto nelle fila del Pdl nella sua proposta di legge costituzionale depositata a Palazzo Madama ad inizio legislatura – e a poco vale aver rafforzato la legittimazione dei suoi Presidenti, attraverso un peraltro efficace, sistema elettorale a doppio turno. La sua visibilità e la sua legittimazione sono molto più scarse di quella del presidente della Regione e ancor di più di quella del sindaco”. Dini, nella relazione che accompagnava gli articoli del ddl, bollava le province come “elemento di confusione, non realmente radicato, privo di una sostanziale rappresentanza e generatore invece di costi impropri cui, in questa fase della nostra storia, dobbiamo guardare con particolare severità ed attenzione”. “L’abolizione delle province è dunque – scriveva Dini – un contributo alla semplificazione della burocrazia e all’alleggerimento della funzione pubblica”.

“L’ITALIA NON SE LE PUO’ PERMETTERE” - Più tardi, nel dicembre 2008, arrivò il testo firmato da ben 32 senatori Pdl. Anche qui, oggetto della proposta, era la cancellazione della parola “provincia” dalla Costituzione, precisamente le modifiche degli articoli 114, 117, 118, 119, 120, 132 e 133 della Carta. “Il costo delle province, sia in valore assoluto, sia in termini di costo-benefici, ha raggiunto livelli elevatissimi”, faceva sapere il gruppo. Che poi provvedeva a lanciare un allarme: “I tre quarti dei bilanci sono assorbiti dalle spese correnti e quindi solo un quarto dei bilanci viene utilizzato per gli investimenti. Il costo delle province assorbe, grossomodo, il 3 percento della spesa pubblica totale”. E un affondo: “Anche se le province fossero un modello ideale, l’Italia non se le potrebbe più permettere in tempi di profonda crisi, con un prodotto interno lordo (Pil) stagnante e un debito pubblico colossale”. E ancora: “L’Italia ha l’urgenza non più eludibile di ridurre l’abbondanza dei rappresentanti, a tutti i livelli. La classe politica deve dimostrare con i fatti di essere capace di autofinanziarsi, cedendo i posti occupati inutilmente”.

“COSTANO TROPPO, L’1% DEL PIL” – Concetti e cifre ripetute contemporaneamente da una schiera di oltre 40 onorevoli Pdl alla Camera. “La soppressione delle province, e non soltanto di quelle che si sovrappongono alle città metropolitane – scrivevano gli onorevoli berlusconiani – potrà finalmente eliminare ogni confusione e ogni sovrapposizione di competenze, specificando drasticamente l’inestricabile rete di competenze amministrative territoriali”. Puntuali le statistiche: “Le spese per le province ammontano ogni anno a circa 16 miliardi di euro, corrispondente all’1 percento del prodotto interno lordo (pil) italiano. Se rapportata alla spesa pubblica, la spesa per mantenere in vita le province corrisponde a circa il 3 percento della spesa totale”. Da ciò l’urgenza del taglio, avvertivano gli onorevoli del Pdl: “Se vogliamo davvero dar eun colpo significativo al debito pubblico italiano possiamo e dobbiamo farlo attraverso una misura, ovvero quella della soppressione delle province, che non ha controindicazioni di alcun genere e che può, fin dalla sua prima applicazione, far risparmiare all’erario una consistente somma di denaro”.

“LE LORO FUNZIONI SONO SCONOSCIUTE” - Anche lo scoppiettante Giancarlo Lehner e il futuro governatore della Campania, Stefano Caldoro, insieme ad altri onorevoli Pdl, bocciavano senza se e senza ma l’ente locale, intermedio tra Regione e Comune. Nel loro testo anti-province, in cui ribadivano le solite modifiche al Titolo V della Costituzione necessarie per abolirle, ironizzavano: “Se si chiede a qualcuno il nome del Presidente della Provincia in cui vive, solo raramente si potrà avere una risposta, peraltro spesso corretta”. E affermavano, subito dopo: “Le funzioni delle province sono del tutto sconosciute ai cittadini e, molto spesso, anche ai giuristi”. Ricordando, infine, l’impegno solenne assunto con gli elettori: “Nel programma sottoscritto dal Popolo della Libertà, dalla Lega Nord, e dal Movimento per l’Autonomia, e ampiamente approvato dai cittadini nelle ultime elezioni politiche, l’abolizione delle province viene riproposta con forza”.

IL VETO DELLA LEGA NORD - Cosa rimane di tanti proclami? Davvero poco. A nulla vale se addirittura l’Italia dei Valori ha fatto da sponda alla maggioranza di governo (lo dimostrano i disegni di legge presentati al Senato n. 1284 e n. 1587, e le proposte di legge costituzionali presentate alla Camera n. 1990 e 2470, firmati dall’intero gruppo parlamentare). Il veto leghista rende le province intoccabili. Uno delle ultime proposte in materia appartiene proprio al Carroccio. 56 deputati del partito di Umberto Bossi hanno firmato una proposta di legge, presentata alla Camera il 7 luglio scorso, in cui si limitano a chiedere la “soppressione delle prefetture – uffici territoriali del governo”, definite “superate articolazioni dello Stato Centrale”, proponendo di trasferire le loro funzioni “alle questure e agli amministratori locali, in particolare sindaci e presidenti di provincia”. La Lega, nella relazione che introduce gli articoli, ricorda di puntare con convinzione alla riforma federalista e all’approvazione dei “disegni di legge delega approntati dal governo, sia per l’adozione della Carta della Autonomia, sia per la definizione delle funzioni fondamentali degli enti locali”. Il Carroccio vuol semplicemente delegare alle Regioni la competenza a decidere sull’esistenza o meno delle province, “sul loro accorpamento o sulla loro soppressione”.

IL DIETROFRONT DELL’UDC - Tutto mentre anche l’Udc, che in un primo momento si era schierato a favore di una soppressione totale delle province, abbassa le pretese. Le proposte presentate dal senatore Gianpiero D’Alia (3 dicembre 2008), dall’intero gruppo parlamentare centrista della Camera (33 onorevoli, con Pierferdianndo Casini primo firmatario, 5 dicembre 2008), e dal deputato Michele Vietti, ora vicepresidente del Csm (1 ottobre 2009), chiedevano l’abolizione di ogni ente, ridottasi, poi, pochi mesi fa (aprile 2011), a soppressione dei soli enti con popolazione inferiore ai 500mila abitanti. “Le modifiche costituzionali avanzate sembrano un buon punto di incontro tra le diverse proposte e impostazioni culturali”, hanno scritto i 15 deputati Udc nell’ultimo disegno.

IL PD: “DECIDANO LE REGIONI” – Il Pd, intanto, con la proposta di legge costituzionale presentata alla Camera il 21 giugno scorso, firmata da 22 deputati, tra cui Pierluigi Bersani e Dario Franceschini, si limita a chiedere che “il mutamento delle circoscrizioni provinciali o la soppressione delle province siano stabiliti con legge regionale sentiti i comuni interessati, in modo da valorizzare appieno il principio di adeguatezza e di prossimità contenuto nell’articolo 118 della Costituzione stessa e al fine di garantire una maggiore distribuzione di potere politico all’interno del territorio”. Lo stesso testo – magra consolazione – chiede che non siano istituite nuove province, che le città metropolitane siano costituite tramite legge regionale, “sentiti i comuni interessati”, e che all’istituzione della città metropolitana corrispondano “la soppressione delle province del medesimo territorio su cui insistono e il trasferimento delle rispettive funzioni e del personale”. L’imperativo dei democratici è, ora, evitare “tagli indiscriminati che potrebbero comportare maggiori inefficienze”.

Fonte giornalettismo.it


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