Michele Placido racconta il 'suo' terremoto a repubblica.it

La drammatica testimonianza del regista

10 Aprile 2009   16:05  

Michele Placido, attore e regista italiano, ha voluto raccontare il terremoto che ha colpito l'Abruzzo per repubblica.it, con un video ed alcune righe. Ci parla di Osmai, operaio macedone, ma soprattutto uno dei tanti piccoli grandi eroi che hanno fatto di questa tragedia un'occasione di riscatto per la dignità umana. Momenti commoventi, nel giorno in cui il silenzio è il grido più forte.

MI infilo in auto, sono diretto a L'Aquila. Mi viene in mente Edgar Lee Masters e il suo Spoon River. Penso: "Se ognuno di questi morti potesse raccontare la sua storia chissà cosa ne uscirebbe fuori". Già, chissà cosa. Attraverso la città senza vederla, senza toccarla.
Voglio invece incontrare gli immigrati macedoni che risiedono in questi paesini da vent'anni. Ho appena letto un titolo di giornale: "Il mistero dei macedoni scomparsi". Già la morte è un mistero, questi corpi svaniti lo rendono ancora più inafferrabile, incredibile.
Nicola, il mio Cicerone, un uomo buono e sapiente, mi conduce a Paganica, paesone a sud della città capoluogo disteso su un pendio dolce della valle dell'Aterno. Ci aspetta un ragazzo di 23 anni, magro come un arbusto. Jimmy il macedone lo chiamano: ha mamma e papà che lavorano qui da anni. Anche lui naturalmente lavora, fa l'operaio. "La mia casa stava cascando e mi sono calato giù dal lampione". Eccolo il lampione. Agile come una lepre, non ha atteso che la terra smettesse di sollevarlo. Si è tuffato, calato, come fanno oggi i vigili del fuoco del Saf, il soccorso alpino, per provare a salvare gli irragiungibili.
Jimmy adesso sta aspettando che i carabinieri gli permettano di entrare in casa e prendere i suoi documenti di cittadino residente, lavoratore in regola, contribuente onesto. Mi spiega: "Alcuni amici sono andati via senza attendere le tende, è vero. Ma non sono spariti... Sono corsi da nostri connazionali a Terni, o anche a Rimini, pure a Ravenna. Per stare insieme, per trovare un po' di conforto, una casa".
Non sono morti e non c'è mistero. Hanno lasciato prima che giungesse la Protezione civile. I loro nomi sono nei registri dell'anagrafe, la loro vita per il momento è altrove. "Ma gli altri macedoni li trovi a Poggio Picenze. Sono più di vent'anni che abitano lì, sono tutti riuniti".
Poggio Picenze, cinque chilometri più a est, è il luogo dell'incontro con un eroe primitivo, una figura quasi biblica. Raggiungo la tendopoli attraverso un campo incolto. Li vedo finalmente. I macedoni sono tutti qua. In gruppo. Sono tutti uomini.
Prima che io chieda mi indicano lui. Osmai Madi ha 42 anni, è muratore. I graffi gli segnano il corpo, mani e piedi imbavagliate da garze, le lacrime agli occhi. Ha un fisico da rugbista. In tanti, in undici dovranno ringraziare le sue mani e le sue spalle. Ha osato ciò che nessuno di noi potrebbe immaginare come possibile.
Inizia a parlare calmo, tranquillo: "Casa mia era un cumulo di macerie, in un attimo è crollata. Tutta la mia famiglia è stata sepolta. Gridava la mia moglie. Però ho prima sollevato le lastre di cemento e trascinato la mia prima figlia verso la strada. Poi sono corso da lei. Mi sono fatto male, vedi le mani? Vedi i piedi? Quando ho finito con lei mi sono diretto verso Valbona, la mia ultima ragazza. Ho scavato e scavato ma non c'è stato niente da fare, Valbona non si muoveva, e io non potevo aiutarla".
Valbona era morta e Osmai anziché piangerla e disperarsi e maledire la terra e il cielo, l'Italia e il lavoro, maledetto lavoro che a Tentovo - la sua città - non si trova, ha osato dove nessuno avrebbe mai potuto solo correre col pensiero.
Osmai ha lasciato la sua Valbona, la sua figlia morta. Ha lasciato la morte al suo posto ed è corso a soccorrere la vita. Non la sua ma quella dei suoi compagni: di suo cognato, delle nipoti, di Renza, Almiz, Zonura, tutti nati all'Aquila. Figlioletti di macedoni. Immigrati di seconda generazione. Per undici volte le spalle e le mani di Osmai, questo Cristo trafitto, hanno trascinato via corpi feriti ma in vita, bimbi impauriti ma forti, mogli angosciate, nonne in lacrime.
Chi avrebbe mai potuto immaginare. Dico e chiedo: chi? Chi di noi avrebbe la forza di lasciare sua figlia oramai persa e voltarsi verso l'altro bisognoso, ancora in pericolo. Chi di voi? "La mia Valbona non c'è più". Singhiozza ora. La disperazione sua è muta, civile, degna di un grande uomo. Il suo silenzio chiama il silenzio dei morti. Lee Masters ha scritto: "Ho conosciuto il silenzio delle stelle e del mare e il silenzio della città quando si placa. E chiedo per le cose profonde a che serve il linguaggio".
Lo abbraccio. Osmai è un eroe e ora ha un'unica impellenza: portare Valbona in Macedonia. Farla riposare sotto le pietre della sua terra. E con lui anche Vassili che ha sua moglie Nuria da offrire alle lacrime dei parenti di Skopje: "Ci stanno aspettando, dobbiamo portarli. Aspettiamo di capire come".
Mi è venuto in mente l'immagine di quando ad Ascoli Satriano, il mio paese, aspettammo i morti di Marcinelle, in Belgio. Due compaesani caduti sul lavoro in terra straniera. Ero col grembiulino in piazza. Tutti eravamo in piazza ad aspettare quei corpi inghiottiti dalla miniera lassù, così lontano. Eroi del nostro tempo. Lavoratori che con la loro fatica aiutavano noi a stare un po' meglio.
Noi prima e adesso loro. La storia si ripete.
Osmai partirà, e io giuro che lo aiuterò come potrò. Lo rivedrò, è sicuro. "Tieniti forte e parti. E poi ritorna che tutti ti aspettano", gli dico. Mi risponde di sì: "L'Italia mi ha voluto bene e io voglio bene all'Italia. Certo che torno".
Il sole picchia forte, più di quando a Onna, qualche ora prima, avevo incontrato suor Maria con una madonnina sulle braccia senza un lembo di polvere: "È un miracolo, guarda qua com'è bella". La madonnina vegliava sulla scuola materna che le suore da 120 anni gestiscono qui. "Abbiamo perso due piccoletti, due bimbi di quattro e cinque anni. Gli altri sono salvi".
Salvi come questi vecchi seduti davanti alla tenda. E questa signora che mi viene incontro. Fa la parrucchiera e prima della casa pensa, disperata, al lavoro morto: "Chi mai si farà più i capelli?"

Michele Placido

(da repubblica.it)



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