Opere d’arte a L'Aquila: delocalizzare o avviare un percorso virtuoso nel cratere sismico?

di Sergio Nannicola

06 Giugno 2012   10:06  

''Sei aprile 2009, il patrimonio storico artistico dell’Aquila subisce una “inaspettata” rovina a causa del sisma.

Maggio 2012, quello che resta del patrimonio artistico/culturale (mobile) rischia ora di essere delocalizzato in nome di una pseudo valorizzazione.

La soprintendenza ai beni storici artistici d’Abruzzo, secondo alcune indiscrezioni, intenderebbe utilizzare le opere d’arte provenienti dal Museo Nazionale d’Arte antica, al fine di esporle in prestigiose strutture culturali abruzzesi. Le opere situate prima del sisma nel Forte Spagnolo dell’Aquila, sono oggi giacenti presso il deposito Paludi di Celano (AQ) in attesa di essere ricollocate nel nuovo museo realizzato nell’ex mattatoio comunale dell’Aquila.

Riassunta in questi termini la volontà della soprintendente Lucia Arbace, in una situazione normale, non farebbe una piega, anzi, assumerebbe una valenza meritoria, ma visto che ci troviamo di fronte ad una situazione di disagio storico assai particolare vorremmo capire bene chi, come e dove, avrebbe la ricaduta economica e culturale (se eventualmente ci fosse) di questa “brillante iniziativa”, visto che per quello che ne sappiamo con una delocalizzazione senza riscontro (in questo momento più che mai indispensabile) per la città dell’Aquila, si andrebbero di fatto a favorire esclusivamente territori fuori dal cratere sismico.

Cosa abbia portato di concreto alla comunità aquilana l’esposizione del “Trittico di Beffi” oltre la pseudo visibilità (decantata dagli organizzatori) di una produzione artistica abruzzese ancora troppo poco conosciuta non è dato sapere, sia quando fu esposto al Senato a Palazzo Giustiniani di Roma, così come nelle principali città americane tra le quali Los Angeles e Washington.

Parliamoci chiaro, non è più il tempo del fumo negli occhi a fare la differenza, oggi nel contesto aquilano c’è bisogno di iniziative semplici ma efficaci, visibili e riscontrabili nei fatti oggettivi.

Non inerpichiamoci più in iniziative che nel concreto lasciano solo un pugno di mosche in mano ai territori. Percorriamo strade che portino verso una gestione virtuosa del patrimonio artistico, con ricadute economiche certe a favore prima di tutto dei territori colpiti dal sisma. Evitiamo quindi per quanto possibile la delocalizzazione delle opere ad esclusivo interesse di altri contesti.

Qualcuno potrebbe rilevare in tali considerazioni atteggiamenti campanilisti, niente di tutto questo, in realtà si tratta solo di applicare una delle più elementari regole economiche, che in questo caso consisterebbe in una effettiva ottimizzazione in loco delle risorse primarie di cui dispone una comunità.

Le possibilità di miglioramento di una collettività disastrata sono evidentemente legate a quattro mani alla valorizzazione del suo patrimonio storico, sia perché esso è il legame diretto con il passato, sia perché un patrimonio gestito in un’ottica opportuna può produrre reddito utile da reimpiegare nella stessa opera di ricostruzione. Penso a iniziative come la sobria e funzionale mostra “Condivisione d’affetti” realizzata in sinergia con la Galleria degli Uffizi di Firenze lo scorso anno a Santo Stefano di Sessanio (AQ), che è stata visitata da oltre dodicimila persone paganti un biglietto da cinque euro a testa, oppure ai cantieri di restauro dei palazzi storici, delle chiese, dei monumenti che potrebbero aprire le loro porte ai turisti in alcuni giorni o alcune ore della settimana, facendo pagare loro una cifra simbolica (un biglietto unico se si riuscisse a realizzare un percorso turistico nel centro o nei centri storici) da destinare alla gestione dell’iniziativa che al contempo offrirebbe un servizio anche nell’ottica della trasparenza dei lavori.

Nel nostro caso, delocalizzare le opere d’arte dal territorio martoriato dal sisma avrebbe la sola valenza del sequestro degli strumenti a chi come un artigiano, un artista, un professionista con quegli strumenti ci vive e ci lavora, penso per questo agli amici emiliani (a cui va il mio pensiero) che per rimettere in moto in tempi rapidi la loro economia sono rimasti vittime sotto i capannoni , riaperti forse troppo repentinamente là dove avevano le loro attività primarie di sussistenza.

Se in questo frangente gli amministratori e gli operatori locali non recepissero appieno che proprio il patrimonio storico/artistico fruibile è di fatto uno degli strumenti di lavoro indispensabile per la ripresa economica, sociale e turistica della città e del territorio, attraverso il quale si potrebbe ambire al salto di qualità nella gestione del patrimonio stesso, sarebbe del tutto vano anche lo sforzo di tenere ancora in piedi ciò che rimane della stessa città storica, poiché le due cose sono in qualche modo indivisibili.

La lungimiranza e le scelte politico/amministrative locali e centrali devono quindi essere esattamente quelle di una messa a dimora del potenziale artistico esistente, esplorando e realizzando in tutti i modi possibili soluzioni virtuose realizzate in primis dentro il cratere sismico, e solo infine semmai ipotizzare l’utilizzo delle opere fuori dal territorio aquilano, a patto che a questa ultima scelta segua appunto un ritorno concreto e reale a favore dell’area geografica da ricostruire.

A questo punto mi auguro che la dott.ssa Arbace comprenda i motivi profondi che destano più di una preoccupazione in una comunità già di per sé delocalizzata e depressa, per questo ed altri motivi non riservi lo stesso trattamento al patrimonio storico artistico in dotazione da sempre a questa città, e che lavori esclusivamente nell’interesse di questo territorio.''

Sergio Nannicola – Artista e docente presso l’Accademia di Belle Arti di Brera di Milano 

fonte www.culturame.it


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