Oscar 2012, l'Academy è ancora attendibile? Alcune riflessioni

La notte più attesa dal mondo del cinema

27 Febbraio 2012   11:17  

E' forse l'anno in cui agli Oscar è stato selezionato il cinema più autoreferenziale. I due favoriti ("The Artist" e "Hugo Cabret", entrambi validi) sono film che parlano dell'immagine filmica, l'uno di quella pura, istituzionalizzata, autarchica del muto, l'altro di quella evocativa, irrazionale, emotiva.


E ci si potrebbe forse far rientrare anche la melassa drammatica di Spielberg calcata dal cavallo, animale topico della cronofotografia (Muybridge). C'è poi "The Tree of Life", esempio di extra-cinema, di indagine sul linguaggio cinematografico, di immagine contemplativa (e certo evocativa, non lontana dall'attrazione del precinema e delle meravigliose fantasmagorie di Meliès ricordate da Scorsese), di narrazione dell'inenarrabile, di espressione dell' ineffabile.


Tralasciamo poi i restanti titoli, non perché non valga la pena di citarli o consigliarli, ma perché è evidente la loro funzione 'riempitiva'. E' da qualche anno che si è ormai palesata l'incompetenza dell'Academy nella scelta dei titoli concorrenti, strabica nella sua esitazione: d'élite o democratica? Critica o pubblico? Arte o Merce? Opera o prodotto?.


Snobbato il cinema italiano (con una commissione, che in passato, si è dimostrata, se è possibile, ancora più incapace di quella USA) e sdegnate pellicole più che meritevoli ("Melancholia", "La talpa", "Drive", "Shame", "Carnage" per citarne alcuni) va aumentando il già enorme divario tra Nord America ed Europa riguardo a giudizio, concezione e interpretazione del Cinema.


Non ci si sorprenda che tra i 'fantastici 9' compaia anche il tedioso megametraggio di Spielberg (mito tutto americano), esaltato in patria e stroncato all'estero. Gli Oscar, per farla breve, stanno perdendo di credibilità e soprattutto di prestigio, detrattori della vera autorialità (imperdonabile, l'anno scorso, la presenza de "Il cigno nero" tra i candidati, con l'elezione di Aronofsky a neo-autore per la sua contraffatta psicanalisi pseudo-freudiana da discount e il virtuosismo strampalato e indiscreto) e promotori di un divismo esasperato e pilotato (è davvero necessario premiare Pitt per aver sputazzato e ciancicato per due ore in "Moneyball"?), fintamente accondiscendenti al dramma o alla commedia (semi)indipendente e di garbo (che puntualmente non vince). Non che non ci siano state sorprese (in positivo) gli anni passati: è il caso di ricordare la vittoria di "The Hurt Locker" della Bigelow quando si dava per vincitore il kolossal dell'ex marito Cameron, "Avatar".


Rimane però un'amarezza sconfortante, un'irritante insoddisfazione di fonte al graduale degrado di uno spettacolo, per l'appunto, autoreferenziale, lontano dalla logica estetica quanto prossimo a quella di mercato. Ecco perché un prodotto furbo, ma non per questo disprezzabile, come "The Artist", che democratizza il cinema del passato adattandolo alla narrazione contemporanea, senza traccia del nichilismo di "Sunset Boulevard", o l'incantevole nostalgia di Scorsese, capace di resuscitare la vecchia anima del cinematografo (ma con i mezzi di oggi, incluso il rinato stereo 3D), possono passare in primo piano rispetto a un cinema che non racconta se stesso ma indaga su se stesso come quello di Malick, ma anche di un cinema che si domanda quanto il passato sia davvero migliore del presente, dunque quanto sia lecito ricordare (quindi omaggiare) e sperare (quindi anticipare, prevedere), se le due cose andranno poi a coincidere nell'immediato futuro. Tanto vale limitarsi all'attuale, con edonistica transigenza ("Midnight in Paris"di Allen). Ma è un attuale che agli Oscar proprio non giova.


Passata la nottata e la veglia abbiamo i vincitori e l'esito è ambiguamente rassicurante. Siamo ormai certi però che l'appellativo Pop-Oscar non sia fuori luogo. 5 i premi assegnati a ciascuno dei due favoriti, "The Artist" e "Hugo Cabret", l'uno premiato più sull'aspetto artistico(film, regia, attore protagonista, musiche e costumi) l'altro su quello tecnico (sonoro, montaggio sonoro, effetti speciali, fotografia e scene). Ma più che il primo caso, come già detto un'opera furba e ammiccante che non poteva non compiacere l'Academy, è il secondo a interessare e ad essere assunto a emblematico: "Hugo" è un film godibile, firmato da un autore ma tutt'altro che autoriale, premiato per i mezzi più che per la tecnica, che fa riflettere non poco sull'opinabile metodo valutativo e "retributivo" adottato agli Oscar negli ultimi anni (fatte rare eccezioni).

Autorialità ricompensata in parte con la statuetta ad Allen (che come consuetudine non l'ha ritirata) per la sceneggiatura originale di "Midnight in Paris". E ancora, come valutare la vittoria di Dujardin e Hazanavicius se non come esposizione di merce nuova e d'importazione all'industria del cinema nordamericano?

Cinema che fagocita e si auto-fagocita, si cita e si omaggia, trasfigurando l'Arte in merce, l'opera artigianale in prodotto di consumo, l'Autore in mestierante, il genio in manierismo. Per questo si può parlare solo di Pop-Oscar, di industria-mercato e non più di Arte.


Che amarezza!


Riccardo Balzano


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