Pensare la ricostruzione: il rischio del marketing dell'ovvio

Di Pierluigi Sacco - parte seconda

14 Settembre 2010   17:00  

Pubblichiamo la seconda parte del saggio del professor Pierluigi Sacco dedicato alla ricostruzione aquilana.

Pier Luigi Sacco è professore ordinario di Economia della Cultura presso l'Università IUAV di Venezia, dove è anche direttore del Dipartimento delle Arti e del Disegno Industriale (DADI) e pro-rettore alla comunicazione e alle attività editoriali. Insegna anche presso l'Università "G. d'Annunzio" di Chieti-Pescara e ha insegnato nelle Università Bocconi di Milano, Firenze, Bologna, e presso la Johns Hopkins University, Bologna Center. E' direttore scientifico della Fund Raising School e coordinatore dell'area Economia della Cultura del Master in Arts and Culture Management della Trento School of Management. E' responsabile scientifico di goodwill, Bologna. Collabora alle edizioni giornaliere e al supplemento domenicale de "Il Sole 24 Ore" ed è membro del comitato scientifico o editoriale delle riviste "Etica ed Economia", "Mind and Society", "Economia della Cultura", "La nuova informazione bibliografica". E' l'autore dell'aggiornamento del lemma "Economia" per l'"Enciclopedia del Novecento" e del lemma "Economia della cultura" per l'opera "XXI Secolo" edite dall'Istituto dell'Enciclopedia Italiana.


2/ La ricostruzione senza pensiero

Di Pier Lugi Sacco

Il principale errore che si potrebbe fare nell'elaborare una strategia di intervento sarebbe quella di pensare che ciò di cui l'Abruzzo ha bisogno oggi è essenzialmente e soprattutto un'opera di ricostruzione fisica di quanto è stato distrutto. Ricostruire è certamente importante, anzi indispensabile, ma l'errore starebbe nel pensare che la ricostruzione in sé possa risolvere il problema.
Le distruzioni del terremoto hanno infatti amplificato enormemente le problematiche preesistenti del già ricordato dualismo territoriale tra interno e fascia costiera, portando ad un rapido spopolamento non soltanto dei residenti ma anche di quelle attività economiche, soprattutto piccole e piccolissime, che dalla presenza dei residenti traevano la loro ragione di esistenza. Molte di queste
attività si sono infatti rilocalizzate o sono in via di rilocalizzazione nella fascia costiera, o verso uno degli altri poli attrattori extra-regionali.

La ricostruzione fisica produce un effetto visibile e dimostrabile, e quindi capitalizzabile anche politicamente. Ma se contestualmente alla ricostruzione (l'hardware) non si lavora anche sul ricompattamento del tessuto sociale (il software), che è soggetto ad un disfacimento meno visibile, meno misurabile, ma anche più rovinoso, si rischia un futuro di città senza abitanti, e quindi senza
vita. Le dinamiche dello spopolamento, peraltro, erano attive da tempo nella zona interna anche prima del terremoto, ed esprimevano una sempre minore capacità del territorio di mantenere presso di sé le sue energie migliori, e a maggior ragione di attrarre efficacemente e permanentemente delle energie esterne.

E questa mancata capacità attrattiva si deve essenzialmente all'incapacità del territorio di esprimere un progetto di futuro convincente e attrattivo. La semplice riduzione del danno, il ripristinare cioè la condizione fisica precedente al terremoto, non farebbe comunque che riaffermare uno stato di cose già caratterizzato da una crisi profonda e senza soluzioni evidenti.

Accettare una logica di ricostruzione senza progetto sarebbe quindi la strada più diretta ed evidente verso la ‘ri-meridionalizzazione' della regione, o quantomeno della sua parte interna, in quanto sancirebbe come ‘normalità' a cui tendere uno stato che prima delle distruzioni del terremoto era una criticità da affrontare. La dolorosa vicenda del terremoto costituisce invece a tutti gli effetti una
discontinuità su cui il territorio dovrebbe fare leva per abbracciare quel percorso di evoluzione e cambiamento che fino ad ora non aveva avuto la forza di intraprendere.

Ma la vera difficoltà sta nel fatto che mentre il percorso della ricostruzione è concettualmente ben delineato e pone problemi di natura essenzialmente tecnica, quello del ripensamento critico richiede di porre e di affrontare
problematiche complesse e dolorose, che non ammettono una risposta evidente.

Il keynesismo ''facile''

Uno degli aspetti più seducenti e rassicuranti della ricostruzione senza pensiero è l'impulso che essa produce sull'economia locale, attraverso la familiare logica dei moltiplicatori keynesiani. La necessità/possibilità di far ‘girare l'economia' attraverso una opportuna iniezione di spesa, di qualunque natura, è l'essenza di ciò che potremmo definire keynesismo ‘facile': una ricetta da mettere in pratica, che peraltro replica un modus operandi fin troppo familiare alle pubbliche
amministrazioni locali italiane. Una ricetta particolarmente attraente in un momento di stagnazione globale come quello attuale, anche al di fuori delle problematiche dello sviluppo locale abruzzese.

Ma la logica del keynesismo ‘facile', che sembra essere alla base anche della nuova, imminente stagione della Cassa del Mezzogiorno - uno strumento che in passato ha prodotto distorsioni economiche notevoli e che nella sua riedizione non sembra aver fatto tesoro degli errori di un tempo - non è adatto ad uno scenario competitivo globale che non si fonda più sulla diffusione e sul
consolidamento di un modello di produzione di tipo industriale, ma al contrario sulla transizione verso nuovi modelli post-industriali fondati sull'economia della conoscenza. Far lavorare il settore delle costruzioni e l'indotto ad esso connesso può costituire un buon palliativo nel breve termine, ma non produce alcun incentivo all'adattamento competitivo del sistema economico locale.

La natura dell'impulso di spesa, nel contesto attuale, è tutt'altro che indifferente. E in condizioni di relativa emergenza è facile trovare giustificazioni nell'orientare le risorse verso forme rapide e semplici di spesa improduttiva, che ottiene l'effetto di un impulso momentaneo al prezzo del consolidamento delle posizioni di rendita, del sistema delle clientele, ovvero di tutto quel mondo economico e sociale che costituisce la principale barriera verso la transizione ad un nuovo modello di sviluppo fondato sulla crescita del talento e delle competenze, sulla capacità innovativa, sull'attrazione di risorse esterne.

L'alternativa è quella di lavorare su una logica di investimento conforme ad una visione di lungo termine che anticipi i nuovi scenari invece di replicare stancamente quelli più familiari e superati.

Ma si tratta di una strada difficile, che richiede appunto una governance sofisticata, consapevole degli esempi più evoluti di sviluppo locale che vengono oggi sperimentati in Europa e determinata a creare le condizioni perché essi possano trovare una loro efficace declinazione nell'Abruzzo del post-terremoto. E in una congiuntura simile sta in primo luogo agli abruzzesi trovare la forza, il
coraggio e la lucidità per capire che in questo momento ci si trova davanti ad un bivio, ad una scelta le cui conseguenze peseranno sensibilmente sulle future generazioni.

Il marketing territoriale dell'ovvio

Una delle vie di uscita più praticate nel tentativo di risolvere i dilemmi dello sviluppo locale in Italia è quella di mettere in piedi progetti di marketing territoriale concentrati su quelle che vengono ritenute, a torto o a ragione non importa, le caratteristiche identitarie più ‘valorizzabili' del territorio, alle quali affidarsi per attrarre grandi flussi di visitatori paganti.

Il riferimento culturale è, immancabilmente, quello del made in Italy, con tutta la relativa sequela di banalità sulla pervasività dei beni artistici e architettonici in tutti il territorio italiano, sulla qualità della nostra enogastronomia, sul gusto innato del nostro artigianato artistico e del nostro design, e via andare. Il
tutto in un paese nel quale la maggior parte dei cittadini ignorano i dati più elementari della storia dell'arte e dell'architettura del proprio territorio e non sanno dare un significato ai termini che descrivono alcuni dei più famosi e diffusi giacimenti gastronomici italiani (come ha dimostrato una ricerca recente nella quale ad esempio il culatello veniva associato...indovinate pure a cosa).

In un paese in cui nella maggior parte dei negozi per turisti delle nostre città d'arte grandi e piccole si vendono cianfrusaglie prodotte in Estremo Oriente.

Sarebbe quindi facile e consolante partire con una nuova stagione di velleitarie quanto poco originali identificazioni tra un territorio e una pratica artigianale, o una leccornia locale, approcci che nel migliore dei casi producono qualche pullman di visitatori annoiati portato in loco da qualche agenzia di viaggio specializzata in determinati target di turismo mordi-e-fuggi.

Una tentazione ancora più insidiosa in una regione che, come si è detto, soffre già di suo di una propria sindrome di debolezza identitaria, che si potrebbe erroneamente ascrivere ad una finora insufficiente o inefficace azione di marketing secondo le coordinate appena descritte. In realtà, l'effetto di questo tipo di politiche, quando si produce (perché in molti casi esse si rivelano semplicemente inefficaci e sopravvivono soltanto in qualche triste depliant distribuito dall'azienda di soggiorno o dalla pro loco), è quello di distruggere l'identità locale, ingabbiandola in formule artificiose, concepite ad uso
e consumo di più o meno fantomatici turisti affamati di ‘colore locale', che impediscono al territorio di seguire un suo naturale percorso di evoluzione culturale, di sperimentare, di rinnovarsi.

Nella memoria storica abruzzese sono ancora molto vive le geniali trovate comunicative di Gabriele D'Annunzio, che molto fecero per far conoscere e amare questa terra al di fuori dei suoi confini, ma che nascevano da una intelligenza comunicativa e da un repertorio culturale decisamente al di fuori
della portata di molti, troppi tra i comunicatori e gli esperti di marketing di oggi.
E per di più pensati per un'epoca nella quale la densità della comunicazione riferita al territorio era ben diversa da quella odierna, e quando era sorretta da una autentica genialità finiva per radicarsi profondamente nell'immaginario collettivo.

Oggi, all'interno di un contesto comunicativo dominato da un rumore informativo sordo e costante, e per di più noioso e ripetitivo, occorre che un territorio costruisca e rafforzi la sua identità attraverso canali che piuttosto che parlare aprano contesti di esperienza ricchi, stimolanti e attrattivi. E questi nuovi canali non si presidiano con strumenti e metodi vecchi di decenni né con idee o slogan preconfezionati e calati a forza sul territorio, ma con la capacità di coinvolgere e mettere in gioco le energie locali in un ‘progetto di senso' non concepito in modo strumentale per creare economie ma capace di esprimere in modo autentico e credibile un genius loci della qualità della vita, declinato non sulla base di unique selling propositions di chiara derivazione pubblicitaria ma su un ricco spettro di piani semantici complementari - culturale, sociorelazionale, paesistico-ambientale, e così via.

 



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