''Perchè partirono?". Viaggio nell'Abruzzo della grande emigrazione

A Fontecchio il convegno sul tema dell'emigrazione abruzzese

20 Luglio 2013   10:21  

''Fu un'emigrazione a mandrie, deliberata, di chi si vide morire la terra tra le mani'' , ha scritto Massimo Lelj.

E quasi ispirati dall'amara poesia dello scrittore di Tione degli Abruzzi, l'associazione culturale "Pico Fonticulano" ha organizzato a Fontecchio, presso gli spazi del convento San Francesco, un convegno dedicato proprio alle ragioni dell'emigrazione che avvenne nei paesi dell'entroterra aquilano in particolare dopo l'unità d'Italia.

Sono intervenuti Marco Polvani che ha parlato delle ragioni economiche dell'emigrazione, Fabrizio Marinelli (Gli Usi Civici dal medioevo all'epoca moderna), Giancaterino Gualtieri (Le conseguenze dell'Unità d'Italia sull'economia abruzzese), Pasquale Casale (Il brigantaggio in Abruzzo), Aurelio Manzi (Le tracce della fatica e del lavoro sul paesaggio), Edoardo Micati (Il paesaggio agro-pastorale abruzzese), Goffredo Palmerini (L'associazionismo degli emigrati abruzzesi nel mondo, una chance per l'Abruzzo).

Nel corso della giornata è stato anche organizzato una visita ai luoghi del lavoro e del potere prima della "grande emigrazione": case contadine e vecchie stalle a Fontecchio, capanne di pietra, macerine e campi terrazzati, grotte, frantoi e segni della civiltà contadina a San Benedetto in Perillis.Le ragione di fondo dell'emigrazione, è stata spiegato l'ingiustizia sociale e al conseguete miseria diffusa, le politiche post-unitarie liberiste ante litteram incentrate sul previlegio e lo sfruttamento. Ieri come oggi la causa dello spopolamento delle aree interne è stata la crisi dell’agricoltura.

A costringere all'emigrazione ''mandrie'' di contadini fu tanto per cominciare la mancanza di terra, o meglio la parcellizzazione eccessiva dei terreni coltivabili che non consentiva l'impiantarsi di aziende agricole moderne capaci di garantire un reddito sufficiente ai contadini.

Le terre fertili inoltre erano state accaparrate dai ricchi signori, come denunciò il delegato Cesare Jarach nella famosa inchiesta parlamentare del 1907:

''I terreni migliori sono posseduti dai proprietari non coltivatori, i peggiori dai contadini. I contadini posseggono i terreni brecciosi, in pendio, poco produttivi, i proprietari non coltivatori posseggono i terreni in piano, dal sottosuolo profondo di natura alluvionale’’.

Fu questa una conseguenza delle leggi eversive del 1806 con cui i dominatori francesi misero sul mercato i beni ecclesiastici e dei feudatari, con conseguente accaparramento dei terreni migliori e più costosi da parte delle famiglie facoltose, i cosiddetti ''galantuomini''.

Vista l'estrema parcellizzazione dei terreni molti contadini erano costretti a lavorare a giornata sui terreni altrui o a affittare terreni.

E l'affitto era quasi sempre ''a risposta certa'' ovvero una quota fissa del prodotto a precidere dall'andamento del raccolto.

''Fin quando non si è aperta la via delle Americhe - si legge in una testimonianza dell'epoca - qui c'era una specie di schiavitù. i terreni erano di proprietà dei signori e dell'arcipretura, i contadini avevano poco o niente. Se la stagione andava male ti rimaneva solo la paglia per le bestie, a primavera già non avevi il grano per mangiare e dovevi andare a fartelo prestare dal signore''.

Destino non migliore quello dei lavoratori a giornata, vittime di bestiale sfruttamento, costretti per pochi soldi a faticare dalle stelle dell'alba a quelle della sera''.

Nell'inchiesta di Jarach si legge a tal proposito che nella valle dell'Aterno per una giornata venivano pagati 1,5 lire agli uomini, 0,50 lire alle donne, più il pranzo che si legge in un'altra testimonianza era rappresentato da ‘’otto noci e un pezzo di pane’’, o nei casi migliori da un piatto di minestra.
Un salario insufficiente a sopravvivere, perché ad esempio un chilo di pane costava 0,40 lire, e un chilo di carne 1,30 lire.

Unica salvezza per le masse si contadini poveri, la disponibilità degli usi civici, ovvero di terreni demaniali di proprietà collettiva, su cui gli abitanti avevano diritto di fare legna, prelevare pietre, usare l'acqua, pascolare, raccogliere i prodotti del suolo come erbe medicinali, funghi, frutta e così via, e anche la possibilità di coltivare, seppure i terrenti erano quasi sempre aridi e in alta quota.

Altre ragioni dell'emigrazione furono la leva obbligatoria introdotta con l'unità d'Italia, che toglieva braccia alle famiglie contadine, la crisi industriale del meridione una volta venute meno le politiche protezionistiche dei Borboni, a tutto vantaggio delle aziende del nord, l'asfissiante e progressiva imposizione fiscale, prima tra tutte la tassa sul macinato che aumentò il costo del pane, l’alimento base per la stragrande maggioranza dei contadini.

Miseria e malessere, mancanza di prospettive e insopportabili prevaricazioni, portarono dunque i nostri antenati davanti ad un drammatico bivio riassumibile nell'adagio popolare: ''o brigante o emigrante’’.

Restano di questa storia i segni nel paesaggio, come i maceri di pietre che i contadini hanno ammonticchiato per dissodare terreni di alta quota e aridi e poveri. gli eroici terrazzamenti anche scavati nella pietra, le apanne a thols i realizzate dai pastori transumanti con la pietra secca. 

Un paesaggio disegnato da tanti commuoventi monumenti alla fatica, e dai terremoti della storia.

interviste e testo di Filippo Tronca
montaggio di Marialaura Carducci

 


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