Ricciuti (FI): "L'Abruzzo non può svilupparsi attorno alle metropoli"

27 Gennaio 2014   11:48  

Le notizie apparse nei giorni scorsi sulle pagine regionali de “Il Messaggero”, relative ad uno studio realizzato dai ricercatori della Cattedra di Urbanistica della Facoltà di Architettura di Pescara, sono di quelle che non possono passare sotto silenzio, ma meritano una riflessione franca e concisa con il fine di riportare costruttivamente la discussione sullo sviluppo dell’Abruzzo su un piano di realismo storico.
Ovviamente ciascuno (in particolare i docenti universitari) è libero di fare le ricerche che vuole, ma a tale libertà si può e si deve rispondere con altrettanta libertà di dissenso.
In tale studio, infatti, viene delineato un principio (o una fede?) secondo il quale “occorre sviluppare l’Abruzzo intorno alle città forti”.
Ebbene il principio cosiddetto si presenta essenzialmente contraddittorio e fallace non dimostrando di conoscere, nel fondo, la storia economica che dal dopoguerra ad oggi ha contraddistinto l’Italia ed anche l’Abruzzo.
Come si fa a proporre un assunto del genere quando, appunto, negli ultimi decenni le politiche economiche, territoriali e sociali, hanno indirizzato prevalentemente i loro interventi proprio sulle aree e le città “forti”, nazionali e regionali, senza, però, sortire efficaci e pieni riscontri positivi ma, anzi, avendo come esiti ricorrenti crisi industriali, aumenti della disoccupazione, abnormi disgregazioni sociali ecc.., almeno che non si intenda, per giustificare o reiterare tali politiche, far riferimento al saccheggio del territorio (e la costa abruzzese ne è un penoso esempio) da parte di alcune lobby spregiudicate spesso supportate (guarda caso) anche da alcune lobby degli urbanisti.
Politiche fallaci quindi che si vorrebbero continuare come fossero un toccasana quando ormai tutte le sedi più accreditate sia a livello accademico, sia a livello di qualificati Istituti per le analisi socio – economiche e territoriali (Censis, Svimez, Ocse) da tempo ripetono che lo sviluppo o è unitario e integrato su tutto il territorio (nazionale e regionale) o non è sviluppo.
Basta guardare, al riguardo, a regioni esemplari dove tale integrazione è stata ed è tuttora efficacemente promossa (in Lombardia lo sviluppo non è “isolato” nell’area forte della conurbazione milanese, ma è presente anche nelle valli bergamasche o anche nella montagna valtellinese, idem nel Veneto o nel Trentino).
Peraltro si deve anche ricordare ai ricercatori urbanisti dell’Università D’Annunzio che l’area adriatica centrale deve certamente concorrere alla crescita dei territori, ma non può essere la sola a determinare lo sviluppo dovendosi invece integrare con un’altra area significativa, l’area centrale appenninica, che ricomprende il Molise, l’alto Sannio, l’Abruzzo interno, l’Umbria e parte delle Marche e le presunte intatte potenzialità sono economiche e ambientali, una componente demografica di tutto rispetto (oltre un milione di abitanti) nonché una valenza di cerniera tra Nord e Sud e tra Est e Ovest che si qualifica, infatti, come significativo elemento di dinamismo.
Pur riconoscendo agli studiosi pescaresi il coraggio di aver provocato una “scossa”, si auspica soltanto che tale studio non diventi occasione per reiterare logiche purtroppo non utili allo sviluppo complessivo dell’Abruzzo, o per stimolare delle velleità di qualche politico che, forse, si appresta a riversare sui cittadini abruzzesi la sua retorica paludata e inconcludente.

 


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