Roberto Bonura, raccontò così la sua mamma e il sisma che la portò via

21 Maggio 2012   09:46  

Il 28 aprile scorso nella Basilica di Collemaggio, si è voluto ricordare, attraverso l'arte, le vite spezzate dal sisma.
Nel silenzio assoluto di una chiesa illuminata da sette ceri andò in scena  “3.32 Naufragio di terra”, opera ideata da Guido Barbieri (direttore artistico della Società aquilana dei concerti “B. Barattelli”).

A parlare furono i 7 testimoni reali del sisma aquilano del 6 aprile 2009.  Vite, spente dal sisma, tornarono vive nei racconti delle loro storie, raccolte e trascritte da Guido Barbieri.

A raccontare le storie, tra gli altri c'era Roberto Bonura. La sua storia, il modo in cui la raccontò, colpì tutti, per il sorriso che Roberto offrì, quel sorriso che raccontava "è la cosa che ho imparato dalla tragedia". Ve la riproponiamo integralmente.

Un sorriso indimenticabile quello di Roberto.

di Roberto Bonura (rielaborazione di Guido Barbieri)

"A mia madre piacevano i film in bianco nero: quello che amava di più era Ladri di biciclette e una volta, mi ricordo, lo abbiamo guardato insieme. Ho pensato tante volte di rivederlo, in questi ultimi anni, ma ancora non ci sono riuscito. Lei era nata qui vicino, a Castelvecchio Calvisio, e la montagna le è sempre rimasta nel cuore. Se c’era una cosa alla quale non avrebbe mai rinunciato erano le passeggiate sul Gran Sasso. E sono convinto che se le avessi chiesto: “Mamma che cosa vorresti fare appena arriva la primavera?” Mi avrebbe risposto: “Una camminata sui prati di Castelvecchio, insieme a te, a tuo padre, ai tuoi fratelli…”. E’ una delle tante cose che non ha potuto fare. Ma al primo posto, nella scala dei valori, Nadia, mia madre, metteva sempre la famiglia. Forse perché una famiglia vera non l’aveva mai avuta. Suo padre, mio nonno, era morto in Francia, in una esplosione, quando aveva pochi anni. E non si ricordava nemmeno che faccia avesse quel padre che non le era mai stato padre. Per questo ha sempre cercato di tenerci stretti, accanto a lei: era la sua ossessione.  Voleva che mangiassimo insieme, che facessimo insieme le vacanze, i viaggi, le cose di tutti i giorni. Ho sempre pensato che ci fosse qualcosa di eccessivo, persino di morboso, in questo culto della famiglia. Lei per esempio non riusciva a buttare via niente che appartenesse a noi: una camicia, un vestito, un paio di scarpe, un giocattolo vecchio. E per questo abbiamo anche litigato, qualche volta… Eppure era una donna che non stava certo chiusa in casa tutto il giorno. Lavorava all’Inail e ultimamente era diventata la responsabile, per il suo ufficio, delle videoconferenze. E poi ha sempre seguito, da vicino, la carriera politica di mio padre, era il suo braccio destro. Mi ricordo che quando lui si presentò come candidato, al Comune, io e lei giravamo per le strade ad attaccare decine di manifesti su tutti i muri della città… Era stata anche assessore alla Comunità Montana, l’unica donna, allora, ad occupare un posto che da decenni era una riserva privata degli uomini… Eppure quando io e mio fratello abbiamo deciso di andarcene a vivere per conto nostro è stata per lei una specie di coltellata, come se avesse perso un pezzo di se stessa. Si vede che aveva bisogno di riempire un vuoto che veniva da lontano, dalla sua infanzia… Di quella assenza lontana le era rimasto addosso una strana traccia, una impronta precisa: faceva fatica ad esprimere fisicamente il suo affetto per noi. Era difficile che ci toccasse, che ci accarezzasse. Mi ricordo solo una volta un abbraccio, forte, caldo, quando da piccolo ero caduto dal motorino e stavo a letto, dolorante. Di questa presenza/assenza io ho sofferto molto durante l’adolescenza, e naturalmente con quella crudeltà che solo i figli, a volte, possiedono gliel’ho rinfacciato, più di una volta. Sono solo contento che negli ultimi tempi, prima del terremoto, io avevo finalmente capito, lontano da casa, che nel suo amore non c’era niente di scontato, di dovuto e mi ero riavvicinato a lei, mettendo da parte i miei rancori senza ragione… Ma c’è ancora un grumo che non si è sciolto, una zona grigia, con la quale devo ancora fare i conti. Quella notte io ero a Costa Masciarelli, con la mia ragazza, e quando è arrivata la scossa, quella delle tre e trentadue, siamo usciti in strada. Era l’apocalisse. Camminiamo di corsa lungo il Viale di Collemaggio e ci dirigiamo verso Via di Campo di Fossa dove c’era la nostra casa. Già alla Villa Comunale veniamo assaliti da una nuvola di polvere che non ci fa respirare. Ma mano a mano che ci avviciniamo alla Piazza la polvere si trasforma in un strana nebbia bianca, densa,  che non avevo mai visto prima.  Dopo dieci secondi di speranza mi accorgo che il nostro palazzo non c’è più,  completamente sbriciolato, con il tetto crollato, a un metro a mezzo da terra. Cammino su un tappeto di macerie e mi fermo a tirare fuori un ragazzo che chiede aiuto. E mi rendo conto che casa mia è più in la, cinque, dieci metri più lontano. Però non mi precipito subito li, mi fermo, aiuto altre persone, facciamo una catena per rimuovere le macerie e solo dopo qualche minuto riesco a raggiungere la zona dove c’era il mio appartamento. Ritrovo mia sorella, viva, e vedo che qualche passo più in la qualcuno tira fuori mio padre, ferito. Mia madre dormiva con lui, e lui, dopo qualche giorno, mi ha raccontato che non era morta sul colpo, che per qualche minuto ha continuato a parlare, a respirare. Probabilmente non sarebbe cambiato niente, non c’era niente da fare, ma ogni tanto mi sfiora il dubbio che se non mi fossi fermato, se fossi arrivato un minuto prima, forse adesso… Forse adesso Nadia sarebbe in prima linea a combattere, con il suo gruppo di donne, a pretendere giustizia. O forse no, se ne sarebbe andata lo stesso. Chi lo può sapere? "


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