Roio, le sue macerie, il provvisorio che diventa definitivo

Cartoline dal cratere minore

26 Gennaio 2011   08:05  

Roio Colle, Roio Piano, Roio Poggio, Santa Rufina. Torniamo in questo angolo di cratere minore ai piedi del monte Ocre. Per le vie deserte e silenziose e di questi borghi antichi, che nel contado furono crocevia della transumanza, e luoghi di leggende, devozioni e saperi artigiani.

Da quella notte del sei aprile molto è cambiato. O forse non è cambiato nulla. Il tempo si è fermato, come in un incantesimo.

Sono nati nuovi insediamenti, i quartieri del C.A.S.E. E i villaggi dei M.A.P. , dove sono andati a vivere chissà per quanti anni a venire le centinaia di sfollati della valle. Spuntano poi nuove palazzine dai colori improbabili. Dal giallo Calippo al limone al blu piano bar.

Dalle finestre si vedono i paesi distrutti. Fanno parte del paesaggio ormai, come le montagne e i boschi che sono lì da sempre.

La neve con pudore copre come un bianco sudario le macerie. Per il secondo inverno. Le macerie lasciate dal passaggio del terremoto, che qui è stato devastante.

Le macerie dei palazzi caduti nei mesi successivi, a causa delle scosse di assestamento, dei mancati puntellamenti, dell'abbandono.

E le colline di macerie risultanti dai numerosi abbattimenti.

A Roio Poggio, in particolare. La parte più antica del borgo è stata spianata dalle ruspe. Impossibile ricostruire, hanno assicurato gli esperti, in modo molto sbrigativo. Troppo costoso, e Roio non è mica il ponte sullo Stretto. Il paese, che nei secoli è sopravvissuto a tanti terremoti, stavolta lo si rifarà a valle. E avrà l'aspetto di una moderna periferie di montagna composta da tante villette sicure, spaziose e dai colori sgargiantissimi.

Roio Piano potrebbe essere invece recuperato nella sua quasi interezza, salvaguardando la preziosa trama dei vicoli, degli archi e delle graziose piazzette. Nonostante gli ingentissimi danni.

Ma nulla ancora si muove. E intanto l'acqua e il gelo si infiltrano negli antichi muri percolano nelle crepe, e nei tetti scoperchiati. Perfezionando così, senza clamore, l'opera di distruzione del terremoto.

Andiamo via da Roio con un senso di tristezza profonda. Che mai potranno capire i commissari, i ricostruttori delegati, le archistar e i piazzisti di prefabbricati, gli esperti e i professoroni venuti da fuori a pensare e a decidere la ricostruzione al posto dei terremotati, gli inviati super specialissimi in cerca più di scandali giudiziari e di scoop succosi, che dell'anima ferita di una terra.

Perché per capire questa lancinante tristezza devi aver vissuto una vita tra questi vicoli e queste pietre antiche. E avere perso la tua casa. I ricordi, i profumi delle stagioni e dei lavori della terra. Un amico, un parente, un compaesano sotto quelle pietre. In quella notte maledetta.

E' la tristezza che nasce dalla consapevolezza, dal sospetto che il provvisorio diventerà definitivo.

Che non c'è nessun interesse e vantaggio economico a ricostruire com'erano e dov'erano tanti borghi del cratere minore, di quello che fu il contado che tanti secoli fa fondò L'Aquila. Ad apparire presenze ingombranti, quasi abusive, da cancellare al più presto, non sono i nuovi insediamenti di cartongesso all'avanguardia, ma i vecchi borghi e le loro scandalose ed imbarazzanti macerie, che scompaiono dietro la curva e dal nostro specchietto retrovisore.

Testo e riprese video di Filippo Tronca

Montaggio diMarialaura Carducci




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