Scoperto pianeta gemello della Terra a 500 anni luce, sembrerebbe abitabile

di Nicola Facciolini

25 Aprile 2014   08:32  

La persona umana è il risultato dell'evoluzione materiale dell’Universo, ma l’anima è il prodotto di un intervento divino diretto” (Giovanni Paolo II). Kepler-186f è il primo esopianeta alieno Riccioli d’Oro! È la notizia pasquale dell’Anno Domini 2014. È un piccolo passo dell’Umanità verso l’esplorazione diretta del Cosmo. Il Telescopio Spaziale Keplero ha scoperto, a 500 anni luce, il primo esopianeta alieno più simile (per dimensioni e temperatura, non per massa) alla Terra, nella zona abitabile “Riccioli d’Oro” della sua stella madre, chiamato Kepler-186f, nella costellazione del Cigno. È il 10 percento più grande della Terra e il più esterno dei cinque esopianeti fratelli che ruotano intorno alla comune stella madre nana rossa K-186, più piccola e fredda del nostro Sole. Merito dei ricercatori Elisa V. Quintana, Thomas Barclay, Sean N. Raymond, Jason F. Rowe, Emeline Bolmont, Douglas A. Caldwell, Steve B. Howell, Stephen R. Kane, Daniel Huber, Justin R. Crepp, Jack J. Lissauer, David R. Ciardi, Jeffrey L. Coughlin, Mark E. Everett, Christopher E. Henze, Elliott Horch, Howard Isaacson, Eric B. Ford, Fred C. Adams, Martin Still, Roger C. Hunter, Billy Quarles e Franck Selsis, autori dello studio “An Earth-Sized Planet in the Habitable Zone of a Cool Star” pubblicato su Science il 18 Aprile 2014 (Vol. 344 no. 6181 pp. 277-280), reso possibile grazie all’alta precisione fotometrica del Telescopio Spaziale Kepler. Dunque simile ma non esattamente uguale alla Terra. Bisognerà attendere la prossima generazione di supertelescopi spaziali e terrestri della Russia, dell’Eso e della Nasa per le osservazioni dirette ad alta risoluzione spettroscopica. La scoperta di Kepler-186f è tuttavia significativa e potrà imprimere la tanto auspicata accelerazione alla Rivoluzione Copernicana peraltro già in atto nelle Esoscienze e nella nuova Economia del Credito, grazie alla totale liberalizzazione dell’impresa e dell’industria spaziale privata. Non solo negli Usa ma anche nel resto del mondo, come preconizzato dai capolavori cinematografici Avatar e Prometheus. Magari per potenziare le acciaierie esistenti in Italia, installarne di nuove e creare milioni di posti di lavoro. Solo i privati potranno infatti imprimere la svolta tecnologica necessaria per l’esplorazione diretta in situ dei mondi alieni, a bordo di vere astronavi interstellari nucleari. Non di capsule “chimiche” a perdere, degne del burocratico programma Orion della Nasa! Si presume che Kepler-186f possa essere il primo pianeta roccioso di dimensioni del tutto simili a quelle della Terra sul quale potrebbe scorrere acqua allo stato liquido. Una condizione fondamentale, questa, per poter ospitare forme di vita. L’esomondo si trova nel nostro stesso angolo visuale della Via Lattea. Una mera coincidenza? È stato identificato dall’occhio del celebre “cacciatore di esopianeti” della Nasa, il redivivo telescopio Kepler. Le sue caratteristiche sono riassunte in una dettagliata Carta d’Identità Galattica pubblicata sulla rivista Science. Secondo i calcoli della Nasa, l’esomondo Kepler-186f completa la sua orbita (anno) in 130 giorni e la distanza che lo separa dalla sua stella è pari a quella esistente, nel nostro Sistema Solare, tra il Sole e Mercurio. Dunque si trova nella fascia verde abitabile, la regione orbitale “Riccioli d’Oro” in cui riceve luce e calore tali da poter mantenere acqua liquida sulla sua superficie. Entusiasta è la coordinatrice della ricerca, Elisa Quintana, dell’Istituto SETI e del Centro di ricerche Ames della Nasa. Il pianeta alieno in questione potrebbe ricevere dalla sua stella la giusta miscela di luce e calore, non troppo né troppo poco, perché l’acqua possa scorrere allo stato liquido, sempre che la gravità aliena lo consenta! Misure peraltro oggi impossibili. Per questo motivo Kepler-186f è molto diverso dagli altri esopianeti simili alla Terra (http://planetquest.jpl.nasa.gov/) finora scoperti che sono infatti troppo vicini alla loro stella per poter avere acqua liquida. SeKepler-186f è il primo pianeta roccioso identificato nella zona abitabile ad avere dimensioni del tutto simili a quelle della Terra, poiché ruota intorno ad una stella piccola e piuttosto fredda, viene considerato più come un cugino del nostro mondo che non un suo gemello. Le stelle nane rosse sono molto numerose nella nostra Via Lattea e in tutte le altre galassie. Hanno caratteristiche tali da renderle particolarmente interessanti agli occhi dei cacciatori di vita aliena nello spazio cosmico. La longevità di questi astri li rende davvero speciali per lo sviluppo di civiltà extraterrestri molto evolute. Significa, infatti, che c’è più tempo disponibile affinché sulla superficie dei loro esopianeti rocciosi avvengano le reazioni biochimiche necessarie alla nascita e all’evoluzione della vita. La fantasia è qui legittimamente libera di sbizzarrirsi perché la Natura aborre il vuoto e la vita è incontenibile, inarrestabile, invincibile. Attecchisce subito quando si rendono disponibili le condizioni minime necessarie. D’altro canto, però, le stelle più piccole sono in genere più attive ed emettono quantità maggiori di radiazioni. “Kepler-186f – osserva Giuseppina Micela, direttore dell’Osservatorio Astronomico Inaf di Palermo ed esperta di esopianeti – è sicuramente l’esopianeta più simile alla Terra che conosciamo, in termini di dimensioni e temperatura superficiale, anche se ancora non conosciamo nulla della sua atmosfera. È stato definito il cugino della Terra perché è così simile, dal punto di vista della sua struttura, alla nostra Terra. È il cugino, e non il gemello, proprio perché la stella, invece, è diversa, trattandosi di un astro molto più freddo del Sole e più piccolo. Queste sono le stelle più comuni nell’Universo. Sono le stelle su cui è più facile trovare pianeti piccoli, proprio perché, essendo stelle piccole, il contrasto stella-pianeta è più favorevole. Come comunità italiana, grazie allo strumento HARPS-N sul Telescopio Nazionale Galileo, abbiamo un programma dedicato alla ricerca di terre abitabili attorno a stelle di tipo M, proprio come quella attorno a cui è stato trovato il pianeta da Kepler”. Gli altri esomondi finora scoperti nelle rispettive zone abitabili vantano masse superiori almeno del 40 percento rispetto alla nostra Terra. Per questo la scoperta di Kepler-186f è stata incorniciata dagli scienziati: è la più importante dell’anno in vista dell’imminente osservazione del primo mondo alieno del tutto simile alla Terra. La Nasa potrà contare infatti su due strumenti avveniristici, il Transiting Exoplanet Survey Satellite e il James Webb Space Telescope, che tra alcuni anni punteranno le loro ottiche alla scoperta di esopianeti rocciosi relativamente vicini al nostro mondo, per determinarne la composizione atmosferica, elaborando le prime mappe meteo, alla ricerca delle civiltà extraterrestri. Perché sappiamo già cosa osservare tra le molecole artificiali e naturali che rivelano e rendono possibile lo sviluppo della vita e delle società più o meno evolute. Sebbene siano note le dimensioni di Kepler-186f, la sua massa e la sua composizione sono oggi del tutto ignote. Alcune ricerche suggeriscono la natura rocciosa dell’esomondo. Ma nulla di più. Potrebbe essere ricoperto da un immenso oceano d’acqua liquida, magari con calotte polari. Nulla di impossibile per lo sviluppo della vita aliena. “Quando cerchiamo forme di vita oltre il nostro Sistema Solare – rivela Elisa Quintana – puntiamo decisamente su quei pianeti con le caratteristiche più simili e comparabili alla Terra, nella zona abitabile della loro stella madre, è questo il nostro obiettivo”. Il 70 percento delle stelle della Via Lattea sono nane rosse di classe M come l’astro Kepler-186. “Sono piuttosto numerose – spiega la scienziata – per cui i primi segnali di altre forme di vita nella Galassia potrebbero benissimo essere rivelati su esopianeti in orbita attorno a stelle di classe M”. Kepler-186f riceve dal suo astro un terzo dell’energia solare irradiata sulla Terra, per cui gli scienziati lo collocano al confine più lontano della zona abitabile. Una situazione decisamente opposta al nostro mondo che orbita nel confine interno della fascia Riccioli d’Oro, quasi in prossimità del limite estremo occupato da Venere. Per cui sulla superficie di Kepler-186f, nella migliore delle ipotesi, la luminosità solare a mezzogiorno sarebbe paragonabile a quella di una nostra pallida aurora! Nulla di impossibile per alieni dai grandi occhi. “Trovarsi nella zona abitabile non significa necessariamente che il pianeta sia abitato o abitabile – precisa Thomas Barclay, scienziato al Bay Area Environmental Research Institute, co-autore della ricerca – ragion per cui Kepler-186f può essere qualificato più come un cugino della Terra che un suo gemello, per alcune sue proprietà che ricordano il nostro mondo”. I quattro esomondi compagni più interni, Kepler-186b, Kepler-186c, Kepler-186d e Kepler-186e, compiono un giro attorno alla loro medesima stella madre rispettivamente ogni quattro, sette, tredici e ventidue giorni. Il che li rende troppo torridi per ospitare la vita così come la intendiamo. Tutti e quattro hanno dimensioni inferiori a una volta e mezza la Terra. Il nostro gemello perfetto non è stato ancora scoperto. Gli sforzi del Kepler Space Telescope, che dal 2009 al 2013 ha misurato simultaneamente le più impercettibili variazioni di luminosità, sempre nella stessa fetta di cielo tra le costellazioni di Vega e del Cigno, su oltre 150mila stelle, sono encomiabili dal momento che si tratta pur sempre della prima missione umana della Nasa totalmente dedicata alla ricerca di pianeti abitabili come la Terra attorno a stelle simili al nostro luminare. Siamo al sistema solare alieno numero 186. I dati di Kepler debbono ancora essere studiati dagli scienziati. E chissà che, prima o poi, non venga estratto il classico coniglio bianco (la nostra Terra gemella) dal cilindro di quell’immensa mole di dati acquisiti che offriranno lavoro ancora per decenni. L’Istituto privato SETI, dedicato alla ricerca di altre forme di vita nell’Universo, non solo grazie alla sua potente stazione radio in California, offre il suo contributo. Siamo soli nel Cosmo? Siamo l’unica razza “intelligente”? La Scienza ufficiale non ci crede. O meglio, pensa che ET esista là fuori, da qualche parte, ma che ancora non abbia rivelato la sua presenza ai terrestri più o meno “intelligenti”! Si spiega in questi termini l’esplosione di interesse scientifico, fin dal 1992 del secolo scorso, nella ricerca dei pianeti extrasolari. Un’altra pietra miliare è stata aggiunta con Kepler-186f, dopo quella di Kepler-20e, Kepler-22b e Kepler-62f. Altri esomondi più o meno grandi e roventi, più inospitali della Terra, alcuni dei quali dotati di una spessa atmosfera di gas come i nostri Giove e Nettuno piuttosto che di una superficie solida. Kepler-186f è il primo pianeta extramondo Riccioli d’Oro! Potrebbe essere quello giusto finora cercato? Non tutti i parametri coincidono con quelli della Terra. La sonda Kepler ha i suoi limiti. Può misurare le dimensioni di un pianeta extrasolare dalla frazione infinitesimale di luce eclissata durante il transito sulla stella madre. I pianeti rocciosi collocati nelle zone abitabili delle nane rosse M, sono più facili da rilevare rispetto agli esomondi in orbita attorno a stelle simili al nostro Sole e sempre nella fascia verde, poiché la frazione di luce stellare che essi bloccano è proporzionalmente più consistente durante i loro transiti. Le stelle nane rosse sono più piccole del nostro luminare, per cui le rispettive zone abitabili sono più vicine all’astro. L’orbita di Kepler-186f è ad appena 0,36 Unità Astronomiche mentre nel nostro Sistema Solare la Terra è lontana esattamente una Unità Astronomica dal Sole, pari a 150 milioni di chilometri. Dunque, quasi alla posizione di Mercurio (0,38 U.A.). Ma con una stella più piccola, va benissimo. Ragion per cui gli anni su questi esomondi di classe astrale M, sono molto più brevi dei nostri, cioè dei pianeti nei sistemi di stelle nane gialle di classe G come il Sole. Non solo. Kepler può osservare molti più transiti simultanei nei sistemi di classe M nella stessa porzione di tempo. Grazie al combinato disposto della durata e della frequenza dei transiti esoplanetari, le nane rosse sono le predilette per questo genere di osservazioni e scoperte con piccoli telescopi. È molto interessante e curioso. Dal momento che gli alieni veri potrebbero abitare proprio lì dove è più facile studiarli. In tal caso, già su base squisitamente statistica la Terra potrebbe essere stata scoperta da tempo immemorabile! I quattro pianeti compagni sono stati individuati da Kepler, come indicano le lettere, in ordine temporale: prima “b”, “c” e “d”; poi l’anno successivo l’esomondo “e”. La loro scoperta è stata confermata all’inizio del 2014 dal team dello scienziato Jason Rowe del SETI, utilizzando il “validation by multiplicity method” sulla base dei dati acquisiti nei soli primi due anni operativi del satellite. Così il quinto pianeta del sistema solare alieno è stato scoperto aggiungendo un anno di informazioni, più che sufficienti per integrare i transiti dell’esomondo più esterno con un’alta affidabilità statistica. Esistono molte stelle nane rosse di classe M più vicine al Sole dove puntare i telescopi per osservazioni molto più facili e tutte caratterizzate da zone abitabili Riccioli d’Oro che rimangono stabili per miliardi di anni. Tutte potenziali case di ET. Anche a distanze inferiori ai 500 anni luce. Kepler, un po’ come gli ipermetropi, non li può studiare. È stato progettato per osservare stelle più lontane. E non può misurare direttamente le masse dei pianeti extrasolari. Ecco perché ci è ignota l’esatta composizione di Kepler-186f che, tuttavia, può essere dedotta, con un certo livello di approssimazione, usando modelli teorici piuttosto affidabili. Nel nostro Sistema Solare esistono due mondi di taglia terrestre nella fascia Riccioli d’Oro: la Terra e Venere. Due pianeti rocciosi del tutto simili per dimensioni, massa e composizione chimica a base di ferro, acqua, ghiaccio e gas. Pare ragionevole pensare che Kepler-186f sia fatto della stessa pasta! A preoccupare sono i giganteschi flare solari prodotti dalle stelle nane rosse, insieme alle possenti maree frutto della forte interazione gravitazionale tra questi astri e i loro pianeti. Fenomeno che può innescare terremoti, eruzioni vulcaniche, tsunami e finanche il blocco della rotazione sul proprio asse. In tal caso si parla di esomondi “tidally locked”, che rivolgono sempre la stessa faccia alla propria stella. Come la Luna con la Terra. Con tutte le conseguenze facilmente immaginabili. Fortunatamente, Kepler-186f orbita alla giusta distanza, senza le complicazioni derivanti dalla prossimità alla propria stella che forse caratterizza i quattro esomondi più vicini. Saranno i grandi telescopi del futuro come l’E-ELT dell’Eso, il Transiting Exoplanet Survey Satellite (TESS) e il James Webb Space Telescope (JWST) ad osservare direttamente nelle atmosphere di questi lontani mondi alieni i biomarcatori, ossia gli inequivocabili segnali molecolari della vita extraterrestre. Dall’Anno Domini 2012, la batteria di radiotelescopi del SETI Institute, l’Allen Telescope Array in continua “crescita”, installati nella California settentrionale, presso il Monte Lassen, sta attentamente monitorando tutti gli esopianeti alieni scoperti dal Telescopio Spaziale Kepler, alla ricerca di “onde portanti” provenienti da civiltà extraterrestri tecnologicamente avanzate più o meno come la nostra. Il SETI non cerca eventuali comunicazioni aliene peraltro incomprensibili, bensì l’impronta tecnologica dell’emissione radio artificiale in banda multispettrale. Segno della presenza di forme di vita come la nostra. Per farlo, deve esplorare automaticamente miliardi di frequenze, al di là del rumore di fondo terrestre o astrofisico, di energia compresa tra un Hertz e 10 GHz. Finora, il SETI lo ha fatto due volte. Sigma due. Ma tutti i segnali registrati sono stati attribuiti alla tecnologia terrestre. Kepler-186f si trova a 500 anni luce dalla Terra. Un’eventuale comunicazione aliena dovrebbe avere un’emissione almeno 10-20 volte superiore, a seconda della frequenza, alla trasmissione inviata dall’Arecibo Observatory su M13 molti anni fa. Il segnale della Terra più forte di sempre “spedito” nello spazio cosmico. Buone notizie per i cacciatori di alieni giungono dalla buona Scienza. I pianeti abitabili potrebbero essere segnalati dalla loro rotazione. È l’ipotesi emersa da un modello elaborato dalla Nasa e dall’Astrobiology Institute, secondo cui i mondi più adatti a ospitare la vita sono quelli con le orbite più strane. Esopianeti che dopo aver iniziato a ruotare in un senso attorno al proprio asse hanno cambiato direzione, il tutto in un periodo geologico relativamente breve. L’inversione di rotta, degna di Star Trek, potrebbe infatti aver impedito a questi esopianeti di formare uno strato di ghiaccio sulla loro superficie, trattenendo dell’acqua allo stato liquido. L’acqua è al primo posto nella lista dei biomarcatori che rivelano la presenza di vita. Il cambio di orbita potrebbe persino compensare la lontananza di questi pianeti dalle loro stelle, condizione che fino a poco fa avrebbe fatto escludere l’ipotesi di abitabilità. “Pianeti come questi sono abbastanza lontani dalle loro stelle da essere catalogati come congelati – rivela Shawn Domagal-Goldman, astrobiologo al Goddard Space Flight Center della Nasa – ma in realtà sono molto indiziati per supportare la vita. Questo potrebbe estendere la nostra idea su qual è l’aspetto dei pianeti abitabili e su dove trovarli”. Il nuovo modello considera esopianeti alieni con massa simile alla Terra, orbitanti attorno a una stella come il Sole e in prossimità di uno o due giganti gassosi. Ma soprattutto, con un cambiamento dell’asse di rotazione avvenuto tra dieci e centomila anni. In termini geologici, un istante! I primi risultati della ricerca sono in pubblicazione anche sulla rivista Astrobiology. Il prossimo passo sarà ora quello di applicare il modello alla realtà. Un obiettivo che ha un ottimo punto di partenza, perché i ricercatori hanno già individuato una porzione di cielo dove potrebbero verificarsi tutte le condizioni descritte dalla loro ipotesi teorica. Si tratta di un gruppo di esopianeti orbitanti attorno a Upsilon Andromedae, un sistema stellare binario distante appena 44 anni luce dalla Terra e che fa parte della costellazione di Andromeda. La stessa della famosa e più lontana Galassia. Condizione basilare di tutte queste scoperte è la Pace e la Prosperità mondiale. Il coraggioso Professor Giovanni Bignami aveva chiesto un incontro con Putin, preoccupato che la crisi Usa-Russia (in Crimea e Ucraina) potesse avere gravi ripercussioni sui rapporti tra gli Stati Uniti di Europa della Scienza e la Santa Madre Russia anche in campo spaziale, cosa che è poi stata confermata dall’insensato annuncio “combattivo” della Nasa, su ordine della Casa Bianca di Obama/Biden, rispetto alle relazioni con i Russi, amici dell’Italia anche sulla Stazione Spaziale Internazionale. Tutto questo alla vigilia dell’Assemblea Generale del Comitato Internazionale per la Ricerca Spaziale (Cospar) che aveva deciso di festeggiare i suoi 40 anni proprio a Mosca, la capitale della Federazione Russa. Per questo motivo il suo Presidente, il Professor Giovanni Bignami, a capo dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, ha inviato una Lettera al Presidente russo Vladimir Putin. Un incontro che è stato concesso, segnale che la ricerca deve guardare oltre i conflitti della “politica” guerrafondaia delle multinazionali. “Pochi anni fa, il Consiglio COSPAR ha scelto Mosca come luogo del suo 40mo “Giubileo” COSPAR Assemblea Generale. I lavori preparatori per questo evento di riferimento – si legge nella Lettera del Professor Bignami – è iniziato almeno un anno fa con la mia visita a Lomonosova University, la location scelta dell’evento. Sono molto lieto di comunicarvi che, sul piano organizzativo, tutto sta andando molto, molto bene. Sforzi congiunti e continui dell’Accademia Russa delle Scienze, Università Statale di Mosca, Roscosmos e del tuo Ministero dell’Istruzione e della Scienza stanno dimostrando già ora che l’Assemblea a Mosca sarà uno dei congressi più riusciti nella lunga storia del COSPAR. Ad esempio, il numero di pubblicazioni scientifiche già presentate a Mosca è superiore a 4500, che batte quasi tutti i record COSPAR. Come potete immaginare, questo definisce solo il limite inferiore del numero di scienziati internazionali che intendono partecipare. Inoltre, i nostri colleghi russi hanno organizzato programmi speciali a sostegno dei giovani scienziati, i loro colleghi provenienti dall’ex Unione Sovietica e dall’Europa dell’Est, nonché degli insegnanti della Scuola russa di Fisica e Astronomia. Tuttavia, nelle ultime settimane alcune nuvole scure sono apparse nei cieli COSPAR. Gli sviluppi politici degli ultimi giorni sembrerebbero mettere in dubbio la partecipazione all’Assemblea COSPAR di molti colleghi-chiave provenienti da Paesi occidentali, soprattutto quelli che lavorano in organizzazioni governative. Ciò rischia di minare gli sforzi della comunità scientifica spaziale mondiale e degli organizzatori russi e ciò, credo ne convenga, signor Presidente, sarebbe assolutamente inaccettabile. La scienza dovrebbe essere al di là della politica, o meglio, dovrebbe essere uno strumento di costruttiva collaborazione pacifica. Come ho già detto, il COSPAR è stata costituito nel 1958, proprio durante il picco della Guerra Fredda, proprio per fornire un forum per gli scienziati sovietici e americani (gli unici giocatori spaziali di quel tempo) per discutere della cooperazione pacifica nello spazio. Oggi, la scienza spaziale, anche nel contesto della competizione naturale tra le nazioni, continua ad agire come un pacificatore. Inoltre, la cooperazione nello spazio, negli ultimi decenni è diventato un fattore molto significativo per nuove conquiste e scoperte nelle scienze spaziali”. Putin pare che sia assolutamente d’accordo. La Santa Russia vuole la Pace e sarà decisiva nella fondazione degli Stati Uniti di Europa. Come? Anche grazie alla Scienza. Con un telescopio da Terra dotato di “occhio” speciale di 60 metri di diametro. Sarebbe l’intento svelato dal rettore dell’Università Statale di Mosca, Viktor Sadovnichy. Questo impressionante supergigante dell’Astronomia, al cui confronto tutti i più grandi telescopi presenti e futuri, compreso l’European–Extremely Large Telescope dell’ESO prossimo alla costruzione, impallidirebbero, secondo quanto riportato da Physicsworld.com, potrebbe essere costruito sulle Isole Canarie, in collaborazione con Spagna, Svizzera, Germania e Italia. Vera o meno che sia la “news”, questa ha scatenato un dibattito all’interno della comunità scientifica russa. “Gli astronomi sono sempre felici di avere un nuovo strumento e saranno sempre capaci di farne l’uso adeguato, perché ci sono un sacco di oggetti là fuori da guardare”, osserva Sergei Popov dell’Istituto Sternberg Astronomical a Mosca. Tuttavia, secondo Popov bisogna considerare se sia l’opzione migliore per l’Astronomia russa. Dal 2006 in Russia si discute se aderire o meno all’European Southern Observatory (ESO). Come stato membro, la Russia e in particolare i suoi astronomi, avrebbero accesso ai vari telescopi che fanno capo all’Organizzazione europea per l’astronomia, tra cui il Very Large Telescope e, in un prossimo futuro, l’E-ELT, in Cile. L’adesione all’ESO della Russia non è però gratuita. Per la Federazione del Presidente Putin si stima un costo di 130 milioni di Euro. È la dote per il “matrimonio” con l’ESO, più un contributo annuale di 13 milioni di Euro. E così mentre il governo russo riflette se stanziare i fondi necessari, c’è chi ritiene che sia meglio usare quei fondi per una struttura propria. Altri scienziati russi ritengono che sia più giusto e logico entrare nell’ESO portando direttamente in dote il supertelescopio russo. “L’idea è quella di lasciare i soldi in casa e utilizzarli per costruire un grande telescopio nelle Isole Canarie”, rivela il direttore del Laboratorio di Monitoraggio Spaziale dell’Università di Mosca, Vladimir Lipunov. Ma Yuri Balega, direttore dell’Osservatorio Astrofisico dell’Accademia Russa delle Scienze pensa che “tale strumento costerà almeno 2–3 miliardi di Euro e ad oggi non abbiamo le tecnologie necessarie, l’ingegnerizzazione e il denaro per avviare un progetto del genere. Anche se avessimo tutto quanto occorre in Russia, un tale telescopio sarebbe pronto tra 20-25 anni da oggi”. Un degno successore dell’E-ELT, per il quale gli astronomi russi farebbero bene ad accedere agli strumenti di classe mondiale dell’ESO in vista del potenziamento delle stazioni osservative russe nell’emisfero settentrionale. La Santa Madre Russia non tradirà gli amici scienziati italiani e viceversa! Ai primi di Agosto 2014, Mosca diventerà la capitale non ufficiale della scienza spaziale. L’Università di Stato “Lomonosov” di Mosca, insieme con l’Accademia delle Scienze della Russia e il sopporto dell’Agenzia spaziale federale russa, terrà la 40.ma Assemblea scientifica del Comitato internazionale per le ricerche spaziali (COSPAR) presso il Consiglio internazionale delle unioni scientifiche. Si tratta di uno dei più grandi appuntamenti di scienziati che si svolge regolarmente nei Paesi partecipanti del COSPAR. Il 4 Marzo il governo della Russia ha approvato la composizione del Comitato organizzatore nazionale dell’Assemblea con a capo il vicepremier Arkadij Dvorkovič. Per la comunità scientifica l’Assemblea del COSPAR è una delle più importanti conferenze da includere nel calendario personale già con alcuni anni in anticipo. Il numero dei partecipanti è di alcune migliaia. I temi delle relazioni riguardano tutte le sfere della scienza spaziale, dai piani delle future missioni ai lavori teorici. La Russia ospiterà per la seconda volta l’Assemblea scientifica del COSPAR. La prima si svolse nel 1970, quando gli scienziati si diedero convegno a Leningrado. È un fatto emblematico visto che gli scienziati dell’URSS, ossia del primo Paese a conquistare lo spazio orbitale terrestre, furono i principali iniziatori della costituzione del Comitato internazionale per le ricerche spaziali (COSPAR) presso il Consiglio internazionale per le unioni scientifiche. Ora Consiglio internazionale per la scienza (ICSU). Il Comitato fu creato nel 1958, dopo il congresso dell’ICSU tenutosi a Londra e dopo il lancio del primo satellite. Il suo primo simposio scientifico si svolse a Nizza nel 1960. Sin dal momento della sua costituzione, il rappresentante dell’URSS nel COSPAR fu l’accademico Anatolij Blagonravov (dal 1959 era il vicepresidente del Comitato), uno dei primi sperimentatori spaziali. Nel 1951, ossia sette anni prima del lancio del primo satellite, Blagonravov insieme con Serghei Koroliov e Valerij Jazdovskij, diresse l’esperimento con l’allora potentissimo missile R-1. Attualmente il COSPAR include i rappresentanti delle Agenzie spaziali di 46 paesi e 13 Unioni scientifiche internazionali. Il lavoro del Comitato si svolge in 8 Commissioni scientifiche ed 11 Gruppi di esperti divisi secondo gli indirizzi della scienza spaziale. Il COSPAR è un organo consultivo, la cui funzione principale è quella di fornire Raccomandazioni per il futuro sviluppo delle ricerche spaziali, mentre i programmi stessi si formano già nelle Agenzie nazionali. Ciò non significa però che le decisioni del Comitato non abbiamo nessun vigore. Così, nel corso della realizzazione della sfortunata missione “Phobos-Grunt”, ha avuto una grande importanza il lavoro di un gruppo di esperti relativo alla protezione planetaria, definita “Quarantena del Pianeta”. Il progetto prevedeva il ritorno sulla Terra del materiale raccolto su Phobos, una delle due lune di Marte. Per farlo era necessario un grado molto elevato di purezza dell’apparato per non depositare vita “aliena” su un altro corpo celeste. Le Raccomandazioni formulate da questo gruppo del COSPAR aiutarono gli specialisti nella preparazione del progetto. Un altro ruolo importante del COSPAR è quello politico. Creato in piena Guerra Fredda, il Comitato fu uno dei centri più autorevoli di consultazione tra gli Stati appartenenti ai diversi schieramenti politico-militari. Per quanto potessero sembrare insignificanti, anche questi contatti svolsero il loro ruolo positivo nella normalizzazione della situazione internazionale per la Pace sulla Terra. L’Assemblea che ritorna dopo 44 anni in Russia, sarà tenuta in una situazione internazionale molto tesa. Alcuni si domandano se la Conferenza avrà effettivamente luogo, in quanto una parte rilevante dei suoi partecipanti proviene dagli Stati Uniti di Europa e dagli USA. Ma la ragione prevarrà come sempre sulla follia dell’irrazionale. Per il momento non si osservano altri sintomi di un’eventale mancato svolgimento del COSPAR in Russia. È vero piuttosto il contrario. Charles Bolden, a capo della Nasa, ha espressamente dichiarato che “nella cooperazione con la Russia, in particolare sulla Stazione spaziale internazionale, non è intervenuto ancora nessun cambiamento”. È anche vero che, quando gli avvenimenti politici si sviluppano tanto precipitosamente, molte cose possono succedere nei mesi che rimangono prima dell’inizio dell’Assemblea a Mosca. Ma abbiamo ragione di credere che i legami scientifici e politici con la Russia non solo resteranno saldi ma si rafforzeranno sempre più. Alla faccia dei guerrafondai che da sempre auspicano l’Evento di Livello Estintivo a colpi di bombe all’idrogeno! Magari come quello che 65 milioni di anni fa, a causa di un enorme asteroide o cometa, ha causato la scomparsa dei dinosauri sulla Terra. Questa è storia-teoria che conosciamo tutti. L’impatto fu talmente devastante da provocare anche l’estinzione di circa il 70 percento di tutte le specie già viventi sulla Terra, come confermato da geologi e paleontologi. In realtà, secondo un gruppo di studiosi, si ritiene che questo non sia stato il più forte impatto verificatosi sul nostro pianeta. Sembra che ben 3,26 miliardi di anni fa un gigantesco asteroide di almeno 50 Km di diametro abbia colpito violentemente la superficie terrestre generando un cratere di enormi dimensioni. Quasi 500 chilometri, cioè due volte e mezzo più largo di quello creato dall’impatto dell’asteroide Baptistina che spazzò via il regno dei rettili. Dall’impatto furono generati anche megatsunami di gran lunga più distruttivi dell’immaginabile (Deep Impact, 1998) e del documentabile (terremoto del Giappone, 11 Marzo 2011). Già da tempo gli esperti ipotizzano un impatto di livello estintivo, di gran lunga più importante rispetto a quello di 65 milioni di anni fa. Adesso lo studio “Physics of crustal fracturing and chert dike formation triggered by asteroid impact,3.26 Ga, Barberton greenstone belt, South Africa” di Norman H. Sleep e Donald R. Lowe, pubblicato su “Geochemistry, Geophysics, Geosystems”, conferma la potenza e la scala di un cataclisma avvenuto miliardi di anni prima e che ha determinato la conformazione della superficie terrestre, soprattutto in Sud Africa, in una regione nota come “Cintura di Greenstone” sulle Barberton Mountains. Si tratta di una area di 100 chilometri di lunghezza e 60 chilometri di larghezza che si trova ad est di Johannesburg, vicino al confine con il Regno dello Swaziland. Il Barbeton custodisce alcune delle rocce più antiche del pianeta Terra. Una decina di anni fa, il primo autore dello studio, Donald Lowe, geologo alla Stanford University, ha scoperto delle formazioni rocciose rivelatrici proprio tra queste montagne africane. Le rocce sembrano indicare un forte impatto e i nuovi modelli elaborati dai ricercatori mostrano per la prima volta le dimensioni dell’asteroide e i suoi effetti sul nostro pianeta, in termini di movimenti delle zolle tettoniche, che hanno cambiano l’aspetto della Terra. L’asteroide, largo tra 37 e 58 chilometri, ha impattato con la Terra a una velocità di 20 km al secondo, generando una scossa di terremoto di magnitudo 10,8. Le onde sismiche si sono propagate in tutta la Terra distruggendo le giovani rocce del nostro pianeta che aveva poco più che 1 miliardo di anni, e provocando altri sciami sismici sotto gli oceani per secoli. Durante studi in Sud Africa, Lowe e i suoi colleghi scoprirono uno strato molto sottile di antichi sedimenti marini contenente migliaia di microscopiche sfere cave. Secondo i ricercatori la loro origine è certa: l’impatto con la Terra di un enorme asteroide più di 3 miliardi di anni fa, quando il calore generato dallo scontro vaporizzò la roccia dispersa dal vento su tutto il globo, cristallizzando e ricadendo poi in superficie. Gli scienziati hanno mappato l’impatto che è stato, con ogni certezza, catastrofico per l’ambiente di quel periodo. Basti pensare che l’asteroide, di gran lunga più piccolo, che ha spazzato via i dinosaur, si stima abbia rilasciato più di un miliardo di volte l’energia delle bombe nucleari americane che distrussero Hiroshima e Nagasaki il 6 e il 9 Agosto 1945. “Se confrontato con le dimensioni della Terra, un asteroide delle stesse dimensioni, dai 10 ai 15 chilometri di diametro, sarebbe stato poco più che un moscerino sul parabrezza”, osserva Bruce M. Simonson dell’Oberlin College (Ohio). Quasi 4 miliardi di anni fa, ipotizzano gli esperti, il cielo sarebbe diventato rosso fuoco, a causa dell’immenso calore. L’atmosfera si sarebbe riempita di polvere e gli oceani, che ricoprivano la maggior parte del pianeta, avrebbero cominciato a bollire come acqua in una pentola. L’asteroide potrebbe far parte del gruppo di decine di enormi rocce che gli scienziati pensano abbiano colpito la Terra durante la parte finale del periodo di Intenso Bombardamento Tardivo, un’importante fase di impatti che si è verificata all’inizio della storia della Terra, circa 4 miliardi di anni fa, i cui segni troviamo anche sulla Luna. Anche grazie alle missioni Apollo. Sulla Terra molti siti di questi enormi crateri da impatto sono stati distrutti dall’erosione, dal movimento della crosta terrestre e da altre forze tettoniche. Ma i geologi hanno trovato una manciata di aree in Sud Africa e Australia Occidentale che ancora conservano la prova di questi impatti che si sono verificati tra 3,23 miliardi e 3,47 miliardi anni fa. I co-autori dello studio pensano che l’asteroide abbia colpito la Terra migliaia di chilometri di distanza dal Barberton Greenstone Belt, pur non potendo individuare la posizione esatta. “Spesso i ricercatori – sostiene Lowe – non possono andare direttamente sul luogo dell’impatto”, per cui i nuovi modelli saranno utili per le future missioni esplorative grazie anche a geniali privati come James Cameron, il navigatore degli abissi. I geologi stanno ricostruendo il puzzle di ciò che è accaduto sulla Terra in questo periodo, cercando di capire meglio l’evoluzione della crosta terrestre, dei diversi regimi tettonici e del sistema attuale delle placche che generano i terremoti, le eruzioni vulcaniche e gli tsunami. “Dobbiamo immaginare la Terra, almeno nei primi anni di vita, come un punching ball che veniva continuamente colpita da grandi asteroidi e dobbiamo cercare di immaginare terremoti di gran lunga più distruttivi rispetto a quelli dell’epoca moderna” – osserva Norman Sleep, fisico della Stanford University. Il co-autore dello studio ha utilizzato modelli fisici per studiare le formazioni rocciose sulla Cintura di Greenstone, i terremoti, i vari siti di impatto di asteroidi sulla Terra e sulla Luna, calcolando la potenza e la durata nel tempo del sisma e delle scosse provocate dal tremendo impatto di quasi 4 miliardi di anni fa: ricostruendo il momento del catastrofico scontro e le sue conseguenze, gli esperti potranno studiare anche come si sono evoluti molti organismi viventi. D’altra parte è un sistema planetario affascinante, quello raggruppato in formazione stretta attorno a un stella simile al Sole, 55 Cancri A, a poco più di 40 anni luce dalla Terra. Dei cinque pianeti scoperti a partire dal 1997, ben tre risiedono in un’orbita molto vicina alla stella madre, più di quanto lo sia Mercurio rispetto al Sole. Finora gli astronomi non riuscivano a darsi una spiegazione convincente di come tale sistema alieno potesse restare stabile, senza che gli esopianeti giganti più interni collassassero verso la stella o si scontrassero fra di loro. Un nuovo studio, pubblicato su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society e condotto da ricercatori della Penn State University assieme ad astronomi di altre istituzioni statunitensi e tedesche, sembra avere dipanato l’affascinante mistero: combinando migliaia di osservazioni con nuove tecniche di calcolo per misurare in modo più accurato le proprietà degli esopianeti, il gruppo di ricerca ha scoperto che sono proprio le masse e le orbite peculiari degli esomondi, interagendo fra loro, a proteggere il sistema dall’auto-distruzione. Quanto meno per il prossimo centinaio di milioni di anni. Poiché la stella 55 Cancri è molto brillante, tale da poter essere vista anche a occhio nudo, è stata scrutata da differenti osservatori migliaia di volte, tributando ai pianeti del suo sistema un’attenzione decisamente superiore a quella normalmente ricevuta dalla maggior parte degli esopianeti anche in sede fantascientifica. “Il sistema planetario di 55 Cancri è unico, sia per l’ampio assortimento dei suoi pianeti conosciuti sia per il numero e varietà delle osservazioni astronomiche compiute – rivela e conferma uno degli autori del nuovo studio, Eric Ford, del Penn State Center for Astrostatistics e del Penn State Institute for CyberScience – la complessità di questo sistema rende particolarmente impegnativa l’interpretazione delle osservazioni”. Una complessità che non ha scoraggiato Benjamin Nelson, giovane ricercatore alla Penn State University, leader del team di ricerca. “Ci sono due pianeti giganti di 55 Cancri che interagiscono così tanto fra loro da poter rilevare cambiamenti nelle loro orbite – spiega Nelson – questi cambiamenti sono veramente interessanti perché ci permettono di imparare molte cose su orbite che normalmente non siamo in grado di osservare. Tuttavia, la rapida interazione tra i pianeti rappresenta per noi anche una sfida, perché la modellizzazione del sistema richiede un’enorme quantità di calcolo per determinare le traiettorie dei pianeti e, di conseguenza, la probabilità della loro sopravvivenza per miliardi di anni senza una collisione catastrofica”. Gli autori dello studio “The 55 Cancri Planetary System: Fully Self-Consistent N-body Constraints and a Dynamical Analysis” di Benjamin E. Nelson, Eric B. Ford, Jason T. Wright, Debra A. Fischer, Kasper von Braun, Andrew W. Howard, Matthew J. Payne e Saleh Dindar, rimarcano il fatto che la maggior parte delle analisi precedenti hanno ignorato l’interazione pianeta-pianeta. Mentre le poche ricerche più recenti che l’hanno tenuta in considerazione si sono basati solo su semplici analisi statistiche, proprio a causa delle difficoltà computazionali. Avendo ottenuto un calcolo preciso del movimento dei pianeti giganti, i ricercatori hanno potuto ricalcolare le proprietà del più interno dei pianeti, 55 Cancri “e”, l’ultimo scoperto. Questa è una super-Terra bollente e densa, definita il “pianeta diamante”. Secondo gli ultimi calcoli la sua densità media sarebbe invece simile a quella della Terra. La ricerca di Nelson e colleghi si colloca all’interno del più ampio impegno per lo sviluppo di tecniche che aiutino l’analisi di future osservazioni alla ricerca di pianeti simili alla Terra. “Gli astronomi stanno sviluppando strumentazione all’avanguardia per i nuovi grandi telescopi – osserva Ford – nell’intento di riuscire a rilevare e caratterizzare pianeti potenzialmente simili alla Terra. Noi stiamo abbinando a questi sforzi lo sviluppo di strumenti computazionali e statistici allo stato dell’arte”. Il 20 Aprile 2014 la sonda Messenger della Nasa, completando la sua orbita numero 3000 attorno al pianeta più interno del Sistema Solare, ha accorciato le distanze alla quota record di appena 199 km dalla superficie di Mercurio. Un’impresa da Guinness World Record. È l’inizio di una nuova fase della missione. Vuoi per il caldo insopportabile vuoi perché, trovandosi così vicino al Sole, è talmente illuminato da illuderci di aver ben poco da nascondere, fatto sta che Mercurio è una fra le destinazioni umane più snobbate dell’intero Sistema Solare. Con alcune lodevoli eccezioni fantascientifiche degne del famoso cartone animato Futurama! Come tutti gli altri pianeti, Mercurio orbita in senso diretto, ad una distanza media di 0,3871 Unità Astronomiche con un periodo siderale di 87,969 giorni terrestri, completando tre rotazioni intorno al proprio asse per ogni due orbite attorno al Sole. Dagli albori dell’esplorazione spaziale a oggi, due missioni soltanto lo hanno eletto a loro obiettivo principale: la Mariner 10 della Nasa negli Anni Settanta del secolo scorso, e l’operativa Messenger, sempre della Nasa. Lanciata nell’Agosto del 2004, la sonda “MErcury Surface, Space ENvironment, GEochemistry, and Ranging” ha compiuto proprio Domenica 20 Aprile 2014, Pasqua di Risurrezione, la sua orbita numero 3000. Dal 17 Marzo del 2011, giorno in cui Messenger ha iniziato a orbitare attorno a Mercurio, la distanza fra sonda e il pianeta è andata via via diminuendo. Con grande cautela, vista la “tormentata” superficie del corpo celeste, con alti e bassi considerevoli, essendo l’orbita molto ellittica, la distanza dalla superficie ha oscillato fra i 200 km e i 15mila km. Con un periodo di rivoluzione inizialmente di 12 ore, poi sceso a 8 ore nell’Aprile del 2012. Ora il gioco si fa ancora più interessante e più ardito. Mentre il contaorbite segna il numero 3000, infatti, anche l’altimetro stabilisce un nuovo record: 199 km dal suolo di Mercurio. Interessante soprattutto dal punto di vista scientifico: più cala la distanza, più aumenta la risoluzione, ossia la capacità di scattare foto sempre più interessanti. Non solo. Aumenta anche il numero di orbite quotidiane e con esse la quantità di rilevazioni topografiche utili. “La copertura osservativa tramite lo MLA richiede tempi molto lunghi – spiega Carolyn Ernst, responsabile di uno degli strumenti a bordo del Messenger, il Mercury Laser Altimeter (MLA) – e  poiché il fascio del laser è molto stretto, sono necessari moltissimi passaggi per ottenere una buona risoluzione spaziale. Più dati riusciamo ad acquisire, meglio siamo in grado di ricostruire la topografia del pianeta. Il passaggio a un’orbita di 8 ore ci ha anche permesso di ottenere più misure di riflettività, grazie alle quali siamo riusciti ad avere indizi fondamentali per caratterizzare le regioni brillanti osservate alle alte latitudini settentrionali”. Risoluzione e quantità di dati destinate, nei prossimi mesi, a migliorare ancora, visto che la distanza minima è destinata a scendere ulteriormente. “A oggi, le nostre misure con neutroni, raggi X e raggi gamma ci hanno permesso di risolvere solo regioni molto grandi del suolo di Mercurio. Scendere ad altitudini inferiori ai 100 km – osserva David Lawrence della Johns Hopkins University – ci permetterà d’individuare caratteristiche geologiche particolari, informazione che a sua volta ci aiuterà a comprendere l’origine e la storia della superficie del pianeta”. Non solo. “L’ultimo anno d’operazioni orbitali di Messenger costituirà in pratica una nuova missione – spiega Sean Solomon, della Columbia University, il principal investigator della sonda – a ogni nuova orbita, le immagini, le misure relative alla composizione del suolo e le rilevazioni dei campi magnetici e gravitazionali del pianeta Mercurio che otterremo, avranno risoluzione maggiore rispetto a quelle già in nostro possesso. Saremo in grado, per la prima volta, di caratterizzare le particelle presenti nell’ambiente vicino alla superficie. Fino a oggi Mercurio è riuscito a custodire gelosamente i suoi segreti, ma ora per molti di questi è giunto il momento d’essere svelati”. Sembrerà strano, ma finora nessuna luna è stata segnalata su Venere. Perché? Elizabeth Howell del Nasa Lunar Science Institute nel tracciare lo status della ricerca, lo spiega in questi termini: “capire a fondo il mistero delle lune mancanti di Venere potrebbe insegnarci molto, anche sulla formazione del Sistema Solare”. Ci sono decine e decine di satelliti naturali all’interno del Sistema Solare, piccoli mondi senz’aria come nostra Luna o con atmosfere importanti come la sonda Cassini ha scoperto sulla luna di Saturno, Titano. Il gigante Giove può vantare molte lune e tiene testa al Signore degli Anelli, Saturno. Marte ha un paio di piccoli satelliti simili ad asteroidi. Venere, il pianeta che gli astronomi finora hanno guardato come a un gemello della Terra quante lune ha? “La risposta è ancora la stessa, nessuna – rivela Elizabeth Howell – Venere e Mercurio sono gli unici due pianeti a non avere una sola luna che gli ronzi intorno. Ciononostante la questione degli introvabili satelliti venusiani continua a stuzzicare i pensieri degli astronomi nello studio del Sistema Solare”. A oggi la scienza ci fornisce tre spiegazioni su come un pianeta possa ritrovarsi una o più lune. Una luna può, ad esempio, venire catturata durante il suo transito vicino al pianeta: è quanto pensiamo possa essere successo con Phobos e Deimos, i satelliti di Marte. Una seconda spiegazione è quella che pone all’origine di una luna, un impatto violento di un corpo esterno sulla superficie del pianeta e la successiva fusione dei frammenti estrusi in un satellite: è la teoria maggiormente accreditata per spiegare la formazione della nostra Luna. Una terza possibilità è quella che immagina le lune come prodotto dell’accrescimento della materia all’origine del nostro sistema planetario, com’è successo per i pianeti. Una quarta via è l’aggregazione delle polveri che compongono gli anelli di alcuni pianeti, come mostra Saturno. Considerando la quantità di oggetti che percorrevano tutto il Sistema Solare all’inizio della sua storia, è alquanto sorprendente per gli astronomi verificare come Venere non abbia una sua luna, sebbene l’asteroide 2002VE68 attualmente mantenga una relazione quasi orbitale con il pianeta, girando attorno a Venere da almeno 7mila anni, destinato però ad essere espulso dalla stessa configurazione orbitale tra appena 500 anni. Potrebbe Venere aver avuto altre lune in un lontano passato? Una ricerca del 2006 di Alex Alemi e David Stevenson del California Institute of Technology sui modelli del Sistema Solare primordiale, ha ipotizzato per Venere, almeno inizialmente, una luna creata da un gigantesco evento da impatto. Il satellite così originato si sarebbe inizialmente allontanato per via delle interazioni mareali. Un secondo gigantesco impatto su Venere, avvenuto 10 milioni di anni più tardi secondo i modelli di riferimento, avrebbe però rallentato se non invertito la rotazione del pianeta portando la luna venusiana a riavvicinarsi e infine a schiantarsi sulla sua superficie. Una spiegazione alternativa alla mancanza di satelliti è certamente costituita dai forti effetti mareali del vicino Sole, che potrebbero destabilizzare anche grossi satelliti in orbita attorno al pianeta. “Certo è – sostiene la Howell – che capire a fondo il mistero delle lune mancanti di Venere potrebbe insegnarci molto anche sulla formazione del Sistema Solare. La questione resta aperta”. Anche per il futuro della Terra. Oggi possiamo dire di conoscere alcuni angoli di spazio meglio delle nostre tasche. E questo è vero quasi in senso letterale. Possediamo una mappa della superficie di Marte molto più dettagliata di quella degli oceani terrestri, mentre l’Universo viene svelato mese dopo mese. Tuttavia, sono ancora tanti i misteri che avvolgono quella che è la nostra casa da millenni, il Pianeta Terra. In occasione della Giornata Mondiale della Terra (www.earthday.org/) la giornalista scientifica Becky Oskin ha pubblicato su Livescience un articolo che parla proprio degli enigmi terrestri ancora rimasti irrisolti, identificando otto domande fondamentali, corrispondenti ad altrettanti misteri che la scienza dovrà risolvere nei prossimi anni. Perché siamo così bagnati? Secondo gli scienziati, quando 4,5 miliardi di anni fa la Terra si è amalgamata nella forma attuale, era costituita per lo più da un grande continente arido e secco. Da dove è spuntata tutta quest’acqua? In che modo l’H2O, elemento chimico per eccellenza simbolo di vita, si è formato fino a raggiungere le percentuali attuali? Una delle ipotesi più accreditate è che l’origine sia stato il violento impatto con asteroidi ghiacciati, da cui il nostro pianeta si sarebbe rifornito di acqua per la prima volta. Eppure sono state trovate pochissime prove di questi scontri, e così il mistero dell’acqua rimane irrisolto. Cosa c’è al centro? Tra miti e leggende, il mistero del nucleo terrestre ha affascinato gli scrittori almeno quanto i ricercatori. Per molto tempo, sia la scienza sia la letteratura hanno parlato del centro irraggiungibile della Terra. Fino agli Anni ’40, quando lo studio di alcuni meteoriti portò a una vera e propria rassegna di tutti i minerali che dovevano essere presenti sopra e dentro il nostro pianeta. I “grandi assenti” erano il ferro e il nichel, che poiché non si trovavano sulla crosta terrestre, dovevano necessariamente stare nel nucleo: ecco elaborata la prima Teoria sul centro della Terra. Ma appena un decennio dopo, una serie di misure che sfruttavano la forza di Gravità dimostrarono che quella stima era erronea: il nucleo era troppo leggero. Oggi i ricercatori continuano a fare ipotesi sugli elementi che compongono la zona più interna e calda del pianeta Terra, ma ancora non è stata raggiunta una Teoria condivisa. Da dove viene la Luna? Da uno scontro titanico tra la Terra e un protopianeta delle dimensioni di Marte? È la Teoria più accreditata, ma non convince tutti. Anche perché alcuni dettagli non quadrano: ad esempio, la composizione chimica di Terra e Luna è troppo simile perché il nostro satellite sia arrivato da lontano. Per questo, secondo alcuni, si tratta invece di un gigantesco frammento staccato proprio dal nostro pianeta; ma ancora, in questo caso non è chiaro in che modo la Luna si sarebbe staccata da noi. Insomma, il mistero dell’origine della Luna resta tale. Come si è formata la vita? Questa è la Domanda delle domande. I primi organismi viventi hanno avuto origine sulla Terra o sono stati portati dallo spazio? Le componenti più basilari della vita, come gli amminoacidi e le vitamine, sono state trovate “intrappolate” sia nelle rocce degli asteroidi sia nelle zone più inospitali della Terra. Per questo l’ago della bilancia ancora non può pendere per l’una o per l’altra Teoria, anche perché non è mai stata trovata traccia di quelli che si pensa fossero gli abitanti più primitivi del nostro pianeta, i primi batteri. L’ossigeno, come e quando? Dobbiamo la nostra esistenza ai cianobatteri, creature microscopiche che hanno avuto un ruolo determinante nella trasformazione dell’atmosfera terrestre. Questi microrganismi buttavano fuori ossigeno come scarto, riempiendone così il cielo per la prima volta circa 2,4 miliardi di anni fa. Eppure l’analisi delle rocce rivela tracce di ossigeno risalenti a 3 miliardi di anni fa. Manca quindi un tassello per capire davvero la storia della vita sul nostro pianeta. Cosa causò l’esplosione Cambriana? Il periodo Cambriano, 4 miliardi di anni dopo la formazione della Terra, vide una vera e propria esplosione di vita: improvvisamente comparvero animali con cervelli e vasi sanguigni, occhi e cuori, tutti in grado di evolversi più rapidamente rispetto a qualunque altra era geologica conosciuta. Ci fu un “responsabile” di questa esplosione? Secondo alcuni, una spiegazione potrebbe essere un aumento del livello di ossigeno appena prima l’inizio del Cambriano, ma altri fattori potrebbero aver concorso a questa rivoluzione di vita. Quando cominciò la tettonica delle placche? Il movimento e il sollevamento di strati sottili di crosta terrestre hanno dato origine alle meravigliose cime montuose e alle violente eruzioni vulcaniche sul nostro pianeta. Eppure i geologi ancora non hanno capito in che modo si è avviato il motore della tettonica: semplicemente, le prove sono andate distrutte. Giusto alcuni minerali risalenti a 4,4 miliardi di anni fa sono sopravvissuti, a segnalare le prime rocce continentali esistenti. Ma ancora non è chiaro il meccanismo che ha portato alla rottura della crosta terrestre. Che dire dei terremoti? Più che un mistero, questa è una sfida. I modelli statistici sono oggi in grado di prevedere la probabilità statistica dei terremoti, più o meno come gli esperti sanno fare con le previsioni del tempo. Ma prevedere un evento specifico è ancora impossibile: persino il più grande esperimento mai fatto in proposito è fallito, quando i geologi hanno annunciato un terremoto a Parkfield, in California, nel 1994, e l’evento si è verificato solo nel 2004. Per questo, oltre agli enigmi sul passato del nostro pianeta, ci sono quelli sul suo futuro: tra tutti, riuscire a proteggerlo dai disastri atmosferici. Sempre che la Natura non superi l’Uomo. Tra il 2000 e il 2013, ben 26 asteroidi, grandi abbastanza da generare una potenza di impatto almeno pari a 1 kiloton, hanno colpito la Terra o, per la maggior parte, sono esplosi nella sua atmosfera. L’onda d’urto generata dagli impatti è stata rilevata dalla Comprehensive Nuclear Test Ban Detection Network, una Rete globale che, sotto l’egida delle Nazioni Unite, controlla l’eventuale realizzazione di esperimenti segreti con armi nucleari. L’Organizzazione ha recentemente reso pubblici i dati delle esplosioni riconducibili all’impatto di asteroidi, nessuno dei quali è stato avvistato prima della deflagrazione. Proprio basandosi su quei dati, la Fondazione B612 (www.youtube.com/watch?v=66mHHaWtlt0) ha preparato un’animazione con la localizzazione delle esplosioni, presentata durante un evento in occasione della Giornata Mondiale per la Terra. “Vogliamo modificare la percezione della gente che gli impatti da asteroide siano estremamente rari, quando in realtà non lo sono. E non c’è modo migliore che rendere visivamente i dati”, osserva Ed Lu, ex astronauta e co-fondatore della Fondazione B612 che ha in progetto di lanciare un telescopio spaziale privato, l’eloquente Sentinel (https://b612foundation.org/sentinel-mission/the-mission/), da non confondere con l’omonimo satellite europeo appena lanciato, interamente finanziato da donazioni filantropiche. Il Sentinel privato con finalità pubbliche, dovrà scandagliare il cielo nell’infrarosso alla ricerca di quegli asteroidi troppo piccoli o poco luminosi (sono centinaia di migliaia là fuori) per essere visti dagli attuali sistemi di allerta terrestri, ma abbastanza grandi da rappresentare una grave minaccia per la Terra se dovessero colpire un centro densamente popolato. Secondo la Fondazione B612, i dati sugli impatti recenti suffragano la necessità di nuovi strumenti di sorveglianza come Sentinel. La frequenza delle collisioni con la Terra risulta infatti 10 volte superiore a quanto previsto dai modelli con cui viene calcolato il rischio d’impatto con asteroidi o comete. In effetti questa valutazione non è nuova. È comparsa in uno studio su Nature del Novembre 2013 in cui venivano valutati gli effetti del meteorite che il 15 Febbraio 2013 ha provocat


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