Tra i fatti per ricostruire e le lamentele degli intellettuali

Il terremoto ed i cittadini

13 Dicembre 2009   19:04  

In futuro, quando il terremoto del 6 Aprile sarà un evento storico, per la ricostruzione degli eventi, al racconto dalla viva voce dei protagonisti si aggiungeranno le notizie dei mezzi di informazione - nazionali e locali.

Di fronte ad una tragedia di così grandi proporzioni, dovrebbe essere spontaneo aspettarsi che i media sostengano un grande sforzo comune della popolazione, motivandola a ricostruire al meglio gli edifici, i monumenti e le infrastrutture distrutte o danneggiate dal sisma.

Tuttavia, di fronte all'ampia attenzione prestata dai media verso le esternazioni di alcune persone che in questi mesi hanno esercitato una facoltà di critica spesso autoreferenziale, del tutto priva di costruttività ed improntata a segnalare non tanto come i cittadini stiano fronteggiando le conseguenze del terremoto quanto e soltanto la gravità dei danni materiali, l'impossibilità di procedere ad una ricostruzione e la conseguente assenza di speranza delle persone colpite da questa immane tragedia, si resta sconcertati e stupiti e ci si chiede quale debba essere la funzione dei mezzi di informazione locali.

Il teorema sostenuto da questi beninformati - soprattutto da un architetto ed un intellettuale - è riconducibile ad un unico argomento: la scelta di costruire abitazioni antisismiche in aree intorno alla città per accogliervi prevalentemente le persone residenti nel centro storico è stata errata e sostenuta soltanto da esigenze politiche ed economiche. Un grave errore, quindi, "delocalizzare" la popolazione, per non parlare poi degli elevatissimi costi degli alloggi antisismici.

Meglio, allora, una sterminata distesa di camper e roulottes, per "mantenere" i cittadini vicini al centro storico in attesa di ricostruirlo, evitando anche la dispersione della popolazione sulla fascia costiera abruzzese.

Un vero peccato che queste argomentazioni abbiano enfatizzato una soluzione che sarebbe stata ancora più provvisoria, considerando i tempi italiani per edificare o ricostruire le infrastrutture, purtroppo smisuratamente più lunghi di qualunque altro paese civile. I beninformati, attraverso i media, hanno discusso questo tema per mesi, dimenticando che nulla - al contempo - veniva fatto per autorizzare il ripristino di quegli edifici rimasti in piedi, non molto danneggiati, ma bisognosi di una complessa procedura burocratica per incominciare i lavori di riparazione e riabitarli. Mentre sparavano a zero sulla scelta del "progetto C.A.S.E.", intellettuali e beninformati trascuravano di criticare alcuni fatti reali che hanno rallentato il processo di ricostruzione, ritardandone l'inizio di almeno sei mesi ed aggravando il profondo malessere dei cittadini. Ricapitoliamo gli eventi principali:

Il giorno dopo il sisma, il sindaco dell'Aquila emanava un'ordinanza con la quale tutte le abitazioni della città - sia quelle distrutte, sia quelle parzialmente danneggiate, sia quelle rimaste intatte - venivano dichiarate inagibili, disponendo di fatto l'evacuazione di tutta la popolazione residente.

Nei mesi successivi, l'intervento del governo e della Protezione Civile consentiva l'avvio della complessa macchina della ricostruzione; veniva stabilito - tra l'altro - come si potessero riparare gli immobili non particolarmente danneggiati. Ai cittadini veniva richiesto di presentare il progetto di ripristino presso gli uffici comunali.

A metà Agosto 2009 il Comune si dichiarava impossibilitato a prendere in mano la gestione delle pratiche. Addirittura, il numero di pratiche correttamente evase fino ad allora era di tredici su almeno 15 mila edifici distrutti o danneggiati!

La Protezione Civile allora, inventava l'"agibilità parziale" - avviate i lavori e, intanto, siete autorizzati a rientrare nelle case.

E in questa occasione accadeva un altro evento di rilevante importanza. I media davano ampio spazio alle proteste degli ordini degli architetti e degli ingegneri. Gli stessi che avevano progettato - male - le vecchie case affermavano che era un eccessivo rischio legale consentire di occuparle in corso di ripristino. Se la casa cade in testa a qualcuno che ci abita mentre la sta ristrutturando, ci vado di mezzo io, che ho firmato il progetto di restauro. Seguivano altri due mesi di sterili discussioni fino alla nascita del "consorzio a tre" per l'assistenza nella valutazione delle pratiche.

Nessuna voce però si alzava per evidenziare l'illogicità della norma più controversa disposta dalle massime autorità cittadine: se tutta la città è stata dichiarata distrutta per decreto, non solo occorrerà ricostruire quello che è andato perduto per davvero, ma anche quello che è rimasto intatto dovrà essere "ridichiarato" agibile ex novo.

Piuttosto che se fosse stato più opportuno mettere i terremotati nei container al posto che nelle "C.A.S.E.", i media, i beninformati e gli intellettuali avrebbero dovuto domandarsi se i disagi della popolazione aquilana sarebbero stati meglio alleviati permettendo alla gente di poter rientrare subito negli edifici ancora intatti o di riparare quelli poco danneggiati attraverso un insieme di procedure il più possibile semplificate, sulla base delle autocertificazioni, rinviando ad un momento successivo le verifiche ed i controlli sull'appropriatezza dell'iter di ripristino, per riattivare le attività economiche tuttora bloccate.

All'oggi ci si accorge che il numero di pratiche di ricostruzione "leggera" a cui è stato dato il via libera è ancora limitato, mentre vi sono tuttora più di 15 mila cittadini "naufraghi" sulla costa teramana e pescarese.

Mentre imperversano le esternazioni degli intellettuali piangenti sulle silenziose rovine circostanti le novantanove cannelle, auspicando dall'alto leggi speciali e tasse di scopo per ricostruire la città morta, ma secondo le direttive imposte dal basso dei comitati autoconvocati, si finge di ignorare che quel meraviglioso centro storico, gioiello del barocco e dello stile liberty è tuttora ingombro di macerie che non vengono smaltite non per cattiva volontà, ma perché il Comune e la Regione stentano a mettersi d'accordo su dove conferirle rispettando le norme europee.

Se gli intellettuali piangono, altri cittadini, lavorando silenziosamente per proprio conto come i Friulani dopo il 1976, reperiscono architetti ed ingegneri per i progetti di ripristino, avviano lavori, si consorziano per dividere gli oneri della ricostruzione degli edifici posseduti in comune, spendono del loro se i contributi statali non sono sufficienti, magari trattando con la propria banca per rinegoziare i mutui rimasti in piedi.

I loro sforzi si infrangono quotidianamente contro i dinieghi dei burocrati degli uffici pubblici, che il giorno dell'Immacolata fanno ponte come se nulla fosse accaduto. Ma essi non demordono. Con cocciutaggine tutta abruzzese fanno il pieno sulla costa per tornare daccapo in città ad integrare le documentazioni mancanti.

Di questo loro immane impegno, nulla viene detto. Mi chiedo perché. Forse - a pensar male si fa peccato e talvolta si indovina - non conviene sottolineare gli sforzi di chi vuole davvero ricostruire. Oltre che il senso materiale di ripristinare quel che è andato distrutto o danneggiato, ricostruire significa rinnovare il tessuto morale della cittadinanza, superando gli errori del passato, la mala edilizia, la periferia costruita in fretta, il centro storico da tempo degradato, tana di studenti fuorisede ospitati in abitazioni stillanti di umidità, ancora con i mobili degli anni cinquanta. I vecchi palazzi nobiliari neri di fuliggine, dalle volte cadenti, con gli interni mal restaurati. I muri dei vicoli con l'intonaco scrostato e la parietaria che ricopre i mattoni.

Il senso morale della ricostruzione coincide con l'impegno, la collaborazione tra pubblica amministrazione e cittadini, col dimenticare le raccomandazioni ed i voti di scambio per creare impropri posti di lavoro tra i vicoli decrepiti del centro storico che non c'è più, per non dover neppure fare due chilometri con la macchina per andare a lavorare in periferia, costringendo i meno fortunati e più preparati ad emigrare altrove. Ricostruzione vuol dire integrare certe istituzioni - come l'università - nel territorio, rinunciando ad inventare corsi "doppione" per dare la cattedra al romano di turno, senza garanzie occupazionali certe per gli studenti, che intanto pagano l'affitto.

Far rinascere materialmente il centro storico significa decidere quali edifici non riedificare e quali, invece, ripristinare, realizzando abitazioni, slarghi e spazi pedonali "ecosostenibili", come usa dire, anche per dimenticare quei vicoli bui e quelle tetre piazzette sepolte da una fiumana di piccole autovetture - acquistate apposta per la carrozzeria squadrata, che ben si adattava agli spazi ristretti tra i portoni difesi dalle colonnette di calcestruzzo con la catenella.

La vera ricostruzione dipenderà dall'impegno - economico e morale - degli uomini invisibili, che mai nessuna storia ufficiale menzionerà, ma che daranno il massimo per riedificare edifici, infrastrutture e spazi, mossi soltanto dal senso del dovere, perché i loro nipotini possano, un domani, tornare a farsi le vasche sotto i portici, che non saranno più la "zona rossa", questo osceno ground zero degli Appennini. Non chiediamo allo stato che cosa potrebbe fare per ricostruire L'Aquila, ma chiediamo a noi stessi che cosa possiamo fare per riedificare la nostra città.

In questo ambito, il ruolo dei media dovrebbe essere fondamentale. Dare spazio a chi continua a sognare, dando dignità pseudoartistica e pseudo letteraria ad un greve colore locale, proponendo soluzioni impossibili senza guardare i problemi reali significa negare l'accaduto. È interessante notare che gli Aquilani del 1703, con mezzi tecnologici assolutamente non confrontabili a quelli del XXI Secolo, non hanno fatto questa rimozione. Ed hanno ricostruito la città.

 

Alessandro De Risio

 


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