Una giornata da disoccupati. Storia di Sara

Crisi e dintorni

11 Dicembre 2009   16:05  

Questa settimana facciamo spazio a Sara, una ragazza pescarese trasferitasi a Roma, ad oggi laureata e ancora in cerca di un lavoro. Pubblichiamo la sua esperienza perchè comune a molti altri giovani italiani imprigionati nel limbo della precarietà, purgatorio subdolo e magistralmente taciuto di un Paese ancora da fondare.

 

 

 

"Mi chiamo Sara e sono disoccupata. Desidero condividere la mia giornata tipo con voi.  Voi che leggete, vi informate, vi affacciate alla finestra del vostro monitor per mantenervi al passo coi tempi, scegliendo la complessità della rete alla confortevole mediocrità di certe televisioni.

Ebbene è proprio con voi che voglio parlare, è a voi che desidero scrivere di me, perché se c’è una cosa che nessuno riuscirà mai a togliermi dalla testa, è che gli italiani siano in gamba. Pigri, disorganizzati magari …  ma con un fuoco enorme dentro al petto che pochi popoli possono vantare.

Un fuoco che è la nostra salvezza ma anche la nostra condanna. E mi sa tanto che dobbiamo decidere in fretta a quale delle due esperienze vogliamo andare incontro.

Nonostante una laurea conseguita alla Sapienza e una nutrita serie di lavori svolti negli ambiti più disparati, alla scadenza dell’ultimo contratto a progetto sono rimasta senza una collocazione. Da diversi mesi quindi sono alla ricerca di un nuovo lavoro.

Dunque vi racconto di ieri. La tipica giornata che affronto da qualche tempo a questa parte.

FASE 1. La mattina. Con la grinta di un cactus senza spine e la determinazione di un bradipo in stato comatoso, mi dirigo come ogni giorno verso il centro della Capitale.

Dopo una mezzoretta di trenino più metro arrivo in via Barberini, dove c’è una nota agenzia per il Lavoro. La stessa che qualche anno fa, prima che conseguissi la laurea, mi rimediò un posto da commessa part time nei pressi di Piazza di Spagna.

All’uscita della metro mi trovo davanti i manifestanti del settore navale. Un ampio e composto corteo di uomini urlanti “vogliamo il lavoro” blocca la strada. Penso che anch’io voglio il lavoro e quasi quasi mi viene di unirmi a loro, nella speranza di fare numero e sfogare un po’ di malessere sociale. 

L’agenzia però chiude alle 12.00, e mi rimangono appena venticinque minuti per consegnare il curriculum (e compilare la solita esaltante scheda che dovrebbe riportare le esperienze passate ma che quasi mai viene presa in considerazione), così resisto al corteo e mi dirigo verso la filiale.

Quando giungo di fronte all'ufficio della società interinale tuttavia, vengo accolta da una spiazzante saracinesca calata a metà. Una giovane riccioluta mi viene incontro sorridendo, per poi mandarmi via dicendo che “causa manifestazione l’ufficio chiude prima”.

M’indigno. “Com’è possibile?” chiedo e mi chiedo. Ho attraversato la città per consegnare un curriculum e vengo rispedita indietro perché l’ufficio -peraltro senza avvisare- chiude prima. Quanto sarebbe costato all’impiegata prendere quel dannato pezzo di carta e magari valutarlo in un secondo momento?

Dovrei arrabbiarmi, discutere, lottare. Ma sono stanca. E’ la quarta agenzia interinale che mi blocca sulla porta. Mi viene il sospetto che non sappiano che farne dei miei dati. Né dei dati di qualunque altro. Ormai ti dicono tutti la stessa cosa: “mandi il curriculum via mail…poi se serve la chiamiamo noi”.

Mi domando a cosa servano loro, se non sono nemmeno in grado di gestire e ricevere un disoccupato in difficoltà. La verità è che rispetto agli anni scorsi l’offerta di lavoro, persino quello più inadatto e provvisorio, si è enormemente ridimensionata.

Quando in tv sento dire che "il peggio è passato", sono due le reazioni che solitamente mi invadono: o rido a crepapelle o mi metto ad inveire contro lo schermo. Dipende dallo stato d’animo del momento e dal livello di saturazione di quel giorno.  A volte la soglia di tolleranza si abbassa drasticamente, e all’ennesima presa in giro mi vien voglia di imbavagliarla quella scatola cattiva e bugiarda.

FASE 2. Il pomeriggio. Dopo il rifiuto dell'impiegata di accettare i miei dati prendo di nuovo la metro. Mentre desolata scendo le scale do un ultimo sguardo alla manifestazione: “Su ragazzi, incazzatevi e gridate almeno voi, io per oggi passo la mano”.

Prendo la metro verso Termini. Ho ancora il mio bel pacchetto di curriculum con tanto di foto tessera e firma sotto il braccio e decido di tentare tra i negozi e le attività della grande stazione. Sono tutti molto gentili.

“Guarda che qui è dura. Non esiste Vigilia né Natale né primo dell’anno” mi dice la giovane responsabile di un negozio di abbigliamento. Scrollo le spalle. Quando si è incudine si deve stare, non sempre si ottiene la parte del martello.

Solo che a forza di stare … temo di non riconoscere più il confine tra la mia responsabilità e quella che il sistema dovrebbe avere nei confronti della mia vita. Mi chiedo ad esempio come mai, dopo aver studiato, lavorato e messo su casa, io non possa permettermi un auto, un mutuo, non ultimo il sogno primordiale della maternità.

Alcuni politici, o politicanti dovrei dire, affermano che l’emersione sempre più massiccia di coppie di fatto e coppie gay metta in discussione la realtà della famiglia italiana. Per quanto mi riguarda è la precarietà a minare la formazione di nuovi nuclei familiari, non forme di unione sentimentale alternative a quella tradizionale. Sono stufa di veder continuamente spostato il problema! 

Ma come si dice: “chi si ferma è perduto”. Così, dopo anni trascorsi a contattare e inviare lettere di presentazione alle società del mio settore di studi, ho accettato, nell’attesa, di tornare alle vecchie mansioni affrontate da studentessa.

Macché, neanche quelle. Semplici ruoli da operatrice telefonica, segretaria, receptionist, o addetta vendite sembrano diventati off limits. Mi sembra un incubo. Da qualche tempo prima di dormire vengo assalita dall’ansia. Uno strano batticuore preceduto da una respirazione frettolosa e violenta mi attende ogni sera sulla soglia del sonno.

La verità è che se non avessi un uomo che amo e una famiglia che mi sostiene, questo Paese l’avrei già lasciato. Come si lascia un marito violento, una barca che affonda, un palazzo in fiamme prossimo alla caduta.

FASE 3. La sera. Mentre penso a tutto questo mi ritrovo già a piazzale Flaminio, sul trenino per Viterbo che ferma al Labaro, quartiere limitrofo alla tanto agognata Rai. Guardo fuori e vedo lo stesso mondo di sempre scorrermi di fronte agli occhi.

Poco distante da me c’è un esile ragazzino castano, con gli occhiali e un libro in mano. Lo osservo e decido che mi piace la sua aria disinvolta e risoluta. E’ felice. Al telefono con la madre racconta di aver ottenuto la parte che voleva nella recita scolastica.

Lo guardo e mi viene da pensare che forse anche a me prima o poi verrà data la parte che merito. In questo gioco assurdo, pericoloso, caotico e misterioso che è  l’Italia del terzo Millennio.".

 Sara

 

 

 

 

Giovanna Di Carlo

 

 


Oroscopo del Giorno powered by oroscopoore