Una tantum per le famiglie in difficoltà. Ma la precarietà è legge

Flexicurity: è possibile in Italia?

12 Marzo 2009   21:23  

Fa discutere la proposta lanciata da Franceschini sul "contributo straordinario" per le famiglie italiane in difficoltà. In seguito al sussidio per i disoccupati, il neosegretario del Pd ha messo in cantiere un'iniziativa che sembra piacere molto ai sindacati e poco al governo: si tratterebbe di un'imposta una tantum(solo per il 2009) costituita dal versamento di ulteriori 2 punti irpef a carico dei redditi superiori ai 120 mila euro annui. I 500 milioni di euro così ricavati verrebbero poi distribuiti alle organizzazioni di volontariato e agli organismi di politica sociale interni ai Comuni, incaricate di far fronte alle crescenti richieste di aiuto provenienti dalle fasce deboli e dai lavoratori in difficoltà. La misura proposta da Franceschini andrebbe a gravare su una platea di circa 150-200 mila contribuenti, compresa la casta dei parlamentari, fino ad oggi particolarmente timida nell'avanzare simili coraggiose istanze.

Tale imposta di solidarietà, già tacciata di palese sinistrismo da alcuni esponenti della maggioranza, è stata invece ben accolta dal leader della Lega Umberto Bossi, il quale si è detto favorevole al contributo straordinario, aggiungendo come in tempi talmente difficili sia più che legittimo distribuire le risorse per aiutare i più deboli. Critiche inaspettate dal segretario di Rifondazione Paolo Ferrero che definisce "elemosina di stato" l'imposta teorizzata dal nuovo volto del Pd. In effetti sono molti gli esponenti politici dell'opposizione che affermano la sostanziale inefficacia delle misure una tantum a favore degli italiani che versano in stato di indigenza o disoccupazione. Tali iniziative, per quanto idonee ad una parziale quanto estemporanea azione di tamponamento delle emergenze sociali generate o acutizzate dalla crisi, avrebbero come effetto quello di volgere lo sguardo altrove dall'urgenza più volte affermata dalla politica italiana di riformare gli ammortizzatori sociali.

GLI AMMORTIZZATORI IN ITALIA

Il sistema italiano degli ammortizzatori sociali è, allo stato attuale, fortemente iniquo: soltanto il 28,5% degli individui in cerca di lavoro e il 22,5% dei disoccupati riceve infatti una forma d'integrazione al reddito. In parole più semplici, di 100 disoccupati poco meno di un quarto riceve il sussidio mentre i restanti tre quarti sono costretti ad arrangiarsi in totale autonomia e assenza dello Stato. Non solo. Anche tra coloro che riescono a beneficiare dell'indennità di disoccupazione si registrano forme di ingiustizia e incongruenze sociali, generate dall'eccessiva segmentazione che il nostro mercato del lavoro ha operato nel tessuto contrattuale del Paese: se chi appartiene alle categorie privilegiate riesce ad ottenere sussidi che coprono l'80% dell'ultima retribuzione per un periodo prorogabile fino a 6 anni, la maggioranza dei lavoratori (meno rappresentati e ancor meno uniti) deve fare i conti con un'indennità pari al 50% dell'ultimo stipendio per un arco di tempo spesso non superiore ai 7 mesi.

La maggiore flessibilità lavorativa promossa dalla legge Biagi (rimasta incompiuta) non è stata compensata nel tempo da un aumento della sicurezza sociale intorno all'individuo in età attiva. Le disposizioni odierne in materia del lavoro non offrono infatti alcuna sostanziale tutela ai lavoratori atipici, che pure si attestano intorno ai 2,7 milioni di individui, tra i quali 2 milioni sono dipendenti a tempo determinato(che nel migliore dei casi possono aspirare alla modesta indennità di disoccupazione per 8 mesi al 60 per cento dello stipendio),e circa 700 mila co.co.co e co.co.pro(apprendisti e occasionali completamente esclusi da qualsiasi forma di indennità di disoccupazione).

Una situazione profondamente viziata, che per mezzo della crisi ha mostrato tutti i segni della propria vulnerabile e frammentata identità sociale. Una condizione che, priva di spinte riformiste, rischia di involvere in un disagio ancora più grave di quello ad oggi sperimentato dalle migliaia di lavoratrici e lavoratori atipici, che si vedono impossibilitati all'accensione di un mutuo per la prima casa o all' acquisto di un auto. La posta in gioco - avvisano sociologi ed economisti- potrebbe essere lo stesso concetto di famiglia, che da valore fondante della Repubblica italiana, potrebbe rivelarsi un sogno troppo costoso e arduo da realizzare per i giovani precari nostrani, all’eterna ricerca di un'occupazione stabile che garantisca loro autonomia e dignità economica.

FLEXICURITY: IL MODELLO DANESE

E' atteggiamento comune in Italia quello di guardare ai Paesi nordici come a sistemi politici e sociali magiormenti evoluti del nostro. Come è stato per il modello elettorale(francese o tedesco?) discusso qualche tempo fa, anche in materia di legislazione del lavoro molti studiosi e politici italiani hanno cercato nelle realtà estere la soluzione ai mali dello Stivale, riscontrando nell'esempio danese il prototipo di Welfare più innovativo e funzionale di cui l'Europa disponga attualmente. L'approfondimento tratto dal Cannocchiale.it, sembra essere trai più chiari ed esaustivi nel panorama delle trattazioni disponibili in rete sul mercato lavorativo danese:
 
"La definizione flexicurity deriva dall’unione delle parole flessibilità e sicurezza: la strategia politica che mira a rendere il mercato del lavoro flessibile, assicurando al contempo una forte protezione sociale, soprattutto per i lavoratori più precari.Tale sistema considera i lavoratori come flussi, al pari delle materie prime, ed è articolato in tre fasi.

La prima, chiamata “flessibilità”, è quella che vede ogni anno circa il 30% dei lavoratori perdere il proprio posto di lavoro. Questo è possibile senza intoppi poiché gli imprenditori hanno libertà assoluta di licenziamento (sia nel pubblico che nel privato). Il riassorbimento rapido di 7 lavoratori su 10 entro un anno significa che gli imprenditori fanno il loro mestiere di creare investimenti e lavoro.

La seconda fase, quella del “welfare”, garantisce un buon livello di reddito durante tutto il periodo di disoccupazione, fino a un periodo massimo fissato oggi a 4 anni. I 3 lavoratori su 10 che non ritrovano impiego entro il primo anno iniziano dal secondo un percorso maggiormente regolato, durante il quale diminuiscono le possibilità di rifiutare forme di occupazione non corrispondenti alle proprie qualifiche professionali ed esperienze, e vengono offerti corsi di riqualificazione e incentivi a trovare altri lavori. Durante l’intero periodo di disoccupazione il lavoratore riceve un sussidio pari al 90% della retribuzione medio-bassa, con un massimo consentito di circa 1.600 euro mensili.

L’ultima fase è quella delle “politiche attive”. Allo scadere del quarto anno il lavoratore esce dal sistema di welfare, cioè del sussidio di disoccupazione, e entra in quello del sussidio sociale. La tendenza prevalente oggi è quella di sostituire quello che era un diritto al reddito sociale, svincolato dall’impegno a partecipare sul mercato del lavoro, ad un diritto condizionato dall’impegno attivo a partecipare a forme varie di riqualificazione e reinserimento produttivo. Il sussidio sociale che si riceve al termine dei quattro anni è inferiore a quello di disoccupazione e si rifà al vecchio principio del reddito sociale minimo garantito. Questo sussidio non ha limiti temporali, ma continuano ovviamente le spinte e i tentativi a reintegrarsi nel lavoro in varie forme da parte degli uffici dell’impiego e dei comuni".

LA PAROLA AGLI ESPERTI

Tratto da maleoccupati.blogspot.com

L'economista Michele Raitano ed Elena Pisano, dottoranda in Economia politica a La Sapienza di Roma, discutono la possibilità di introdurre anche in Italia una “flessibilità sostenibile”, ossia un sistema che combini virtuosamente le richieste di flessibilità delle imprese con un’elevata protezione dei lavoratori in termini di ammortizzatori sociali, politiche attive e formazione professionale.

Le conclusioni a cui giungono i due studiosi invitano alla cautela. Attualmente non ci sono i presupposti, in quanto un simile mercato espelle di frequente un elevato numero di lavoratori che devono non solo essere tutelati economicamente ma anche professionalmente, per salvaguardarli da un lato e incrementarne qualifiche e occupabilità dall’altro. Ne deriva che è necessaria l’assenza di ogni forma di segmentazione della forza lavoro in termini di tutele del welfare delle retribuzioni, rischi di intermittenza dell’attività, e accesso a corsi di formazione. Requisiti del tutto assenti nel nostro Paese.

Nell’ultimo decennio difatti, i principali interventi normativi volti a favorire il mercato del lavoro italiano, il Pacchetto Treu (legge 196 del 1997) e la Legge Biagi (legge 30 d3l 2003), si sono concentrati principalmente sugli aspetti contrattuali a discapito di quelli della protezione sociale. Ciò ha determinato in primis una segmentazione fra lavoratori a tempo indeterminato e temporanei: Quest’ultimi poi si sono distinti fra dipendenti a tempo determinato e parasubordinati (collaboratori coordinati continuativi o a progetto), i quali non hanno diritto a nessuna forma di sussidio di disoccupazione.

Tale segmentazione ha assunto col tempo dimensioni sempre più preoccupanti. Basti pensare che dal 2001 al 2006 la quota annua di nuove assunzioni con contratti a tempo indeterminato si è ridotta dal 60% al 46%, mentre dal 1996 al 2004 quella dei parasubordinati è raddoppiata, e dal 2000 al 2004 quella dei determinati è aumentata del 20%. Ciò si è verificato perché, come spiegano Muehlberger e Pasqua, i contratti atipici sono utilizzati da molti datori di lavoro come un modo economico per assumere temporaneamente giovani qualificati. Non a caso il 30% del personale parasubordinato risulta laureato a fronte del 12% di quello indeterminato. L’essere laureati tuttavia non incrementa le possibilità per i temporanei di transitare verso forme contrattuali indeterminate (Corsini, Guerrazzi).

Di qui l’emergere della trappola della precarietà, ossia il rimanere intrappolati nello status di svantaggiato per un ampio periodo di tempo, durante il quale si è esclusi perfino dalle attività di formazione professionale attivate dalle imprese. Quindi non solo si vive nell’incertezza, ma si rischia addirittura di rimanere sprovvisti in futuro di adeguate conoscenze e/o competenze. Bisognerebbe dunque prevedere un’adeguata spesa in termini di politiche sia attive che passive. Le prime per favorire l’ingresso nel mercato del lavoro a chi ne è uscito (i cd. lavoratori scoraggiati) o aiutare chi ha perso il posto a trovarne un altro o crearne uno nuovo; le seconde invece per sostenere finanziariamente i lavoratori che perdono reddito a causa di licenziamento o pensionamento anticipato.


gdc


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