Vigilia di Castelvecchio Calvisio: Capoluoghi.it ripropone un artico

02 Agosto 2007   13:58  
In questi giorni è ospite dell´Abruzzo il professor Alberto Di Giovanni, originario di Roccamorice (Pe), direttore del Centro Scuola e Cultura Italiana di Toronto (Canada) e personalità eminente tra coloro che hanno edificato il prestigioso status sociale, politico e culturale raggiunto dagli italo-canadesi. Nei giorni scorsi, Di Giovanni è stato ricevuto a Palazzo Centi dal presidente della Regione, Ottaviano Del Turco, al quale ha presentato una rappresentanza dei 300 studenti liceali che ogni anno frequentano i corsi intensivi di lingua e cultura italiana organizzati in Abruzzo dal Centro Scuola di Toronto. Nel pomeriggio di venerdi 3 agosto, Di Giovanni, prima di ripartire per il Canada, parteciperà alla Tavola Rotonda "Dall’emigrazione allo sviluppo: trasformare da disastro in risorsa lo spopolamento dell’Abruzzo interno", organizzata dal Comune di Castelvecchio Calvisio (nell´ambito della "Festa degli abruzzesi nel mondo" co-organizzata col Cram Regione Abruzzo, ndr). Questo incontro assume particolare importanza per l´autorevolezza dei relatori, tra i quali si segnalano i parlamentari eletti nelle circoscrizioni estere Giuseppe Angeli, Mariza Bafile, Claudio Micheloni, Antonio Razzi e il presidente del Cram (Consiglio regionale abruzzesi nel mondo), Donato Di Matteo. Sul tema dell´incontro, Di Giovanni esporrà una testimonianza di particolare rilievo, per essere essa frutto dell´esperienza e delle convinzioni di centinaia di migliaia di italo-canadesi. Infatti, se l’emigrazione rappresentò per molti l’unica possibilità per realizzare altrove ciò che la disperante situazione socio-economica non consentiva in patria e quel che ne conseguí fu l’abbandono e il degrado di pascoli e campagne e di un enorme patrimonio edilizio, oggi, l’eredità di quel vero e proprio disastro umano e ambientale può diventare per le nuove generazioni una preziosa risorsa economica, occupazionale e d’immagine, grazie al riuso a fini turistico-culturali degli antichi borghi e delle circostanti bellezze naturali. Riteniamo utile e giusto pubblicare per l´occasione il profilo di Di Giovanni tracciato da Errico Centofanti in un articolo che, sebbene risalente al 2005, appare quanto mai attuale". Trent’anni - di Errico Centofanti Il territorio del Canada è il piú vasto del pianeta, dopo quello della Russia. Con i suoi 10 milioni di chilometri quadrati dispone d’una superficie uguale a due volte e mezza quella dei 25 Stati dell’Unione europea. In tanto spazio, però, a petto dei 460 milioni di cittadini dell’Ue, vivono solo 32 milioni di persone (47% cattolici, 39% protestanti). Un terzo di tutta la popolazione canadese si addensa nell’Ontario e Toronto, che dell’Ontario è la capitale, è nel contempo la maggior metropoli del Canada e la seconda città abruzzese: ci vivono 2,5 milioni di persone, di cui 700mila d’ascendenza italiana, tra le quali 80mila sono d’origine abruzzese. Bella e affabile qual è (tutt’altra cosa rispetto all’oppressività di New York), Toronto, per un abruzzese sentimentale, può somigliare all’iperbolico inveramento di un sogno: meno antica dell’Aquila e meno abruzzese di Pescara, pare un felice e vincente sincretismo tra l’eleganza architettonica aquilana e la modernità di pensiero pescarese. A Toronto, in Ossington Avenue, giú a Bloor, c’era, un quarto di secolo fa (ma immagino esista tuttora), una dismessa stazione di polizia. Due piani con le facciate esterne di mattoncini ricoperti da una spessa tinta rossa, con le mostre di porte e finestre dipinte in giallo-beige, con la recinzione di robusta rete metallica ravvivata da generose pennellate di porporina argentata: un’ambientazione che piú tradizionalmente nord-americana non sarebbe possibile. Invece, nella “baccaiarda”, cioè nel cortiletto retrostante, uno strepitoso mutamento d’atmosfera: un bel po’ d’anziani giocavano, senz’ombra di fretta, a bocce o a tressette, un venerando jukebox offriva un sommesso sottofondo di mandolinate e Mario-Merola. Nell’interno dell’edificio, un ulteriore cambio di scena: gran viavai di gente, per lo piú donne e giovani, tutte lustratissime e squillanti di variegate parlate italiane variamente venate d’anglosassone. Eravamo all’inizio degli 80 del Novecento. In quel tempo, il magnifico Columbus Centre in Lawrence Avenue era ancora in costruzione e lí, in quella vecchia stazione di polizia, avevano sede diverse organizzazione degli italo-canadesi, tra le quali il Centro Scuola e Cultura Italiana inventato da Alberto Di Giovanni. È lí, in quella vecchia stazione di polizia, che ho incontrato per la prima volta Alberto. Da allora, molte cose sono cambiate, parecchie in meglio e qualcuna in peggio, ma Alberto è sempre lo stesso, è sempre la stessa irrefrenabile e geniale locomotiva che ogni giorno trascina tutto e tutti verso le piú inverosimili stazioni da lui stesso inventate e da lui stesso collocate lungo i meno prevedibili percorsi dell’avventura umana. Mi pare utile e istruttivo raccontare l’idea che mi sono fatto del personaggio. A mio modo di vedere, il principio vitale che muove e guida la quotidianità di Alberto è sorretto da due fondamentali pilastri. Il primo emerge a tutto tondo da uno dei ragionamenti che intessono la prefazione scritta dallo stesso Alberto per “Dalla frontiera alle little Italies”, il libro del grande storico canadese Robert Harney che in Italia è uscito nel 1984 nella collana diretta da Renzo De Felice per l’editore Bonacci: "Negli anni del secondo dopoguerra, Toronto e in generale le città canadesi sono state ben piú di frequente meta della immigrazione italiana che non New York, Chicago, San Paolo o Buenos Aires. Ma in Italia quello che Carlo Levi definiva il ´mito americano´ ha mancato di adeguarsi a questa realtà. Sebbene migliaia di famiglie italiane – soprattutto in Abruzzo, Friuli, Lazio, Calabria e Sicilia – abbiano una conoscenza di prima mano della vita italocanadese, l’idea che in Italia si ha dell’America resta spesso legata alle immagini del ´Cuore´ o alla cinematografia di Hollywood. Sia a livello popolare che scientifico, poco o nulla si sa in Italia della storia e della società italocanadese". Per raccontare il secondo pilastro, prendo in prestito un po’ di parole scritte a fine Ottocento dall’insigne economista Achille Loria, parole, peraltro, tuttora attualissime: "Noi italiani dobbiamo intensamente rallegrarci che l’imperialismo, il morbus anglius per eccellenza, che tuttavia s’è sparso per tutta la terra e ha fatto strazio di tutte le nazioni, nel nostro Paese non abbia mai potuto attecchire, forse per il vivacissimo e incomprimibile spirito di libertà che caratterizza la nostra vita sociale. E l’appassionato augurio che noi facciamo all’Italia è che essa seguiti in questa fecunda sua via e si conservi estranea alle follie coloniali e all’avventure imperialistiche che travolgono tutti gli altri Stati, per convergere tutte le sue energie all’imperialismo intellettuale, il solo che uno Stato civile debba cercare". Ecco, la quotidianità di Alberto si sviluppa lungo questo binario da lui stesso impiantato quale norma di vita per sé e per il Centro Scuola: a) far crescere a beneficio della comunità canadese l’influenza del patrimonio culturale italiano, b) far sviluppare in Italia la capacità di comprensione dell’autentica realtà italo-canadese. Si tratta di un impegno tutt’altro che agevole, delle cui modalità e dei cui risultati altri raccontano diffusamente in altre parti di questa monografia. A me preme evidenziare un dato di fatto basilare: per secoli, il Canada si è uniformato a quell’orientamento, non esclusivamente canadese, noto come “anglo-conformismo”, la cui ideologia presuppone che tutti gli immigrati debbano rinunciare alla propria lingua e alla propria cultura, per abbandonarsi a una piena integrazione nella lingua e, ovviamente, nella cultura anglosassone. A un certo punto, però, la forza delle cose determinò quel mutamento epocale che è stato l’avvento del concetto di “società multiculturale”. In termini quantitativi, si trattava di prendere atto della sostanziale trasformazione intervenuta nei rapporti tra etnie all’interno della società canadese: gli anglosassoni non erano piú predominanti. Infatti, oggi, i 32 milioni di cittadini del Canada sono solo per un terzo d’origine britannica, per un terzo sono d’ascendenza francese e per un terzo provengono da tante altre culture, tra le quali quella italiana è la maggioritaria. Il mutamento strutturale venne avviato nel 1970, con il rapporto conclusivo di un’apposita Royal Commission, la quale ribadendo il "principio di eguaglianza tra i due popoli fondatori", cioè tra gli inglesi e i francesi, introduceva il riconoscimento del "contributo apportato da altri gruppi etnici all’arricchimento culturale del Canada". Perciò, si può capire quanto sia stato difficile e grandioso il lavoro dei primi trent’anni di Alberto e di tutti i suoi partner e collaboratori del Centro Scuola, visto che, a un certo punto, essi, contribuendo a scardinare plurisecolari incrostazioni di “anglo-conformismo”, sono stati tra i protagonisti di quel risultato, quasi incredibile, grazie al quale l’italiano, in pochi anni, è diventato "la lingua d’origine piú insegnata in Ontario e in tutto il Canada", secondo l’autorevole affermazione di Arturo Tosi, Coordinatore a Londra del Bilingualism and Language Testing Project (v. “L’Italiano d’Oltremare”, Giunti, Firenze 1991, pag. 101). Nel 2005 era passato un quarto di secolo, da quella prima volta in Ossington Avenue: Alberto mi dice che vuol contribuire ai festeggiamenti per i 25 anni d’attività del Columbus Centre, per il che pensa a un’iniziativa incentrata sul piú grande italiano di tutti i tempi. Sa che da otto anni curo la direzione artistica del festival “Il Suono di Dante” a Ravenna e mi chiede di collaborare. Dentro quel quarto di secolo, il Columbus Centre è diventato la piú grande, la piú dinamica, la piú bella e la piú prestigiosa tra tutte le strutture create nel mondo dall’iniziativa privata degli immigrati italiani. Dentro quello stesso arco temporale, Alberto e io siamo diventati amici e abbiamo lavorato congiuntamente a tante cose belle e importanti. Dunque, era ovvio che accettassi d’impegnarmi. Con Alberto abbiamo messo insieme un progetto comprendente una mostra di grandi illustratori danteschi del passato (Salvador Dalí, Gustave Doré, Amos Nattini, etc.) e uno spettacolo con due grandi protagonisti della scena italiana, Paola Gassman e Ugo Pagliai, una raffinata star della tv canadese, Jennife Dale, e un bel po’ di eccellenti musicisti di Toronto. Come sempre accade a chi ha la responsabilità artistica di un evento, gioie e sofferenze stanno tutte dietro le quinte e, sopra tutto, si concludono nel momento in cui l’evento va in scena. A parte la sperata gratificazione dell’applauso, a quel punto, di emozioni non ce n’è piú: tutto quel che si doveva fare per ideare, pianificare, provare e rendere possibile la creazione artistica è stato fatto e non si può dar luogo a ulteriori arricchimenti o modifiche. Ciò vale per tutto, per la musica e per il teatro, per una mostra e per qualsiasi evento, grande o modesto che sia. A quel punto, non resta che sperare nel giudizio favorevole del pubblico, ci si rilassa e si comincia a ragionare intorno alle altre cose cui bisognerà metter mano fin dal giorno seguente. L’esperienza della giornata dantesca mandata in scena da Alberto all’inizio d’Ottobre del 2005 a Toronto, però, è stata piuttosto insolita. Le centinaia e centinaia di persone che hanno seguito con spasmodica partecipazione lo spettacolo nella vasta aula di Saint Charles Borromeo e che poi si sono lasciate ammaliare dalle immagini ammirate nella Joseph Carrier Gallery non erano un pubblico qualsiasi. In gran parte si trattava di canadesi di provenienza o ascendenza italiana. Inoltre, c’erano parecchie persone di ben differenti appartenenze etniche. Tutti stavano lí non per una partecipazione di routine a uno dei tanti eventi di gran classe quotidianamente offerti da una metropoli elegante e cosmopolita qual è Toronto. Tutti stavano lí per “sentimento”. Fossero italiane, africane o cinesi le loro radici, fossero insegnanti, bottegai o casalinghe, tutti stavano lí nella consapevolezza di volersi confrontarsi con il talento di grandi artisti, dal vivo o su parete, impegnati nel dar vita di suoni e d’immagini a una delle piú alte creazioni dello spirito umano. Stavano lí per emozionarsi con Dante: che miracolo!, pensando che i luoghi e i pensieri del “bel paese dove il sí suona” stavano ben altrove, al di là dell’oceano. Per me, il vero spettacolo è stato quel pubblico. Dimenticato tutto il resto, le sensazioni, le emozioni e le reazioni emanate da quel pubblico sono state uno spettacolo come di rado ne capitano nella vita, un grande show, un grande omaggio a quel grande che fu e resta Dante Alighieri, una delle indimenticabili creazioni alle quali ha saputo dar vita la gran locomotiva che, fin dai tempi di Ossington Avenue, è Alberto Di Giovanni. Quella sera, all’uscita, badai per la prima volta a una curiosa coincidenza: anche le vaste e invitanti facciate del Columbus Centre sono fatte di mattoncini rossi, ma, a differenza dello sciatto stile anglosassone dei mattoncini “dipinti” di rosso della vecchia stazione di polizia di Ossington Avenue, i mattoncini del Columbus non han bisogno di periodiche riverniciature, perché si tratta di quei raffinati mattoncini italiani “faccia-a-vista” che sono intrinsecamente e indelebilmente rossi. Un bel cambio di sostanza: dal doversi contentare di Apparire al poter Essere. Un cambio di sostanza come quello degli italo-canadesi, che ormai hanno imparato a dire “backyard” meglio degli anglosassoni e ovunque conversano orgogliosamente in italiano. Come gli anglosassoni, che ormai respirano a pieni polmoni il contributo apportato dagl’italiani "all’arricchimento culturale del Canada". Trent’anni di Centro Scuola non sono passati invano.

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