9° anniversario sisma, il messaggio di Mons. Petrocchi Arcivescovo dell'Aquila

05 Aprile 2018   09:25  

L’orologio che batte le ore della storia de L’Aquila non è restato fermo alle 03, 32 del 6 aprile 2009. Quell’ora tremenda - non estranea al misterioso disegno salvifico di Dio - sarà sempre conservata nella memoria della nostra gente, ma non può arrestare i palpiti del cuore di questa Città.

Per la Comunità Aquilana questo è il tempo della laboriosità, della ripresa, della saggezza e della prossimità: dimensioni che debbono essere declinate al presente, ma ancora meglio in prospettiva dell’avvenire.

Occorre non solo riedificare le devastazioni esterne (ancora visibili), ma ricomporre le fratture interiori, provocate dal sisma. Infatti, c’è un terremoto che scuote la terra, ma c’è anche il terremoto dell’anima, che ferisce la mente, gli affetti e i rapporti interpersonali.

Per questo, i primi verbi da coniugare per la ricostruzione non sono “progettare” e “fare”, ma “ascoltare” e “incontrare”: cioè, accogliere i bisogni profondi della gente, per disporli secondo il giusto ordine di priorità, e intensificare la tessitura delle “relazioni convergenti”, che potenziano la coscienza fattiva di essere un’unica famiglia.

L’Aquila non va ridisegnata al passato, ma pensata al futuro. Inoltre, L’Aquila che deve “risorgere”, non è solo quella raccolta dentro le mura, ma anche quella esterna: cioè, allargata ai centri limitrofi che l’hanno costruita.

Alcuni dolori sono così acuti e profondi, che non possono essere espressi “parlando”: forse la loro manifestazione più immediata e intensa è il grido. Quando è impossibile urlare, queste sofferenze restano “mute”: tuttavia il grido non si azzittisce ma diventa “silenzioso”. Va detto, allora, che questa “voce” inespressa si sente lo stesso e fa stringere l’anima.Tali messaggi “non-detti”, ma comunicati attraverso il linguaggio empatico ed intuitivo, hanno valore universale: sono trasmessi, infatti, attraverso un codice dialogico immediatamente comprensibile, perché passa attraverso la via del cuore e segue la grammatica dei sentimenti più veri e radicati.

A mio avviso, due dinamiche dimostrano l’immortalità dell’anima umana: l’amore che rimane in eterno, e il dolore, che resta impresso per sempre nella memoria: infatti, se la sofferenza passa, resta però l’aver sofferto.

Ogni sofferenza è abitata dalla Pasqua di Cristo, che la riscatta e le rende - se vogliamo - fonte di salvezza. Un terreno dove è stato seminato un dolore grande, se vivificato con l’acqua del Vangelo, fruttifica risurrezione.

Ricordiamo tutte le vittime di questa immane tragedia: sia quelle stroncate dal sisma, come anche coloro che sono decedute successivamente, a causa dei traumi del “dopo-terremoto”.

Sappiamo che la morte non ha il potere di erigere barriere invalicabili tra i vivi di “quaggiù” e i vivi di “lassù”. La fede in Gesù, il crocifisso-risorto, ci assicura che rimangono aperte e transitabili le vie della comunione, che consentono lo scambio di grazie e di beni evangelici. In particolare, un grande flusso deve attivarsi sull’ arteria spirituale della preghiera, che siamo chiamati a frequentare quotidianamente.

Questa strada della preghiera poggia sul grande arco portante della carità, che congiunge il cielo e la terra.

La dolorosa esperienza del terremoto contiene pure una lezione fondamentale: ci insegna a puntare sull’essenziale, su ciò che conta davvero e non ci verrà mai tolto. Proprio l’amicizia - che ci lega a questi fratelli che abitano nella Casa definitiva di Dio - obbliga a rinforzare i vincoli della coesione, ecclesiale e civile, come anche a mobilitare tutte le nostre forze nella ricerca concordata del bene comune. A questa impresa sono tenuti tutti: ognuno per la sua parte e nessuno escluso. Tale progresso morale e sociale (che speriamo di registrare in progressione crescente) dimostrerà che la dura prova della sofferenza ci è stata maestra di vita e che il sacrificio di questi fratelli non è stato vano.

Le grandi braccia dell’amore, cristiano ed umano, sono capaci di stringere tutti: quelli che camminano nel tempo, ma anche quelli già approdati all’eternità di Dio.

Ecco perché, quando parliamo dei fratelli e delle sorelle che hanno varcato la soglia della storia e sono entrati nella Vita che non passa, siamo autorizzati non solo a dire che prima “erano” tra noi; ma dobbiamo affermare che pure oggi ci “sono” vicini: poiché, sia loro che noi, incontriamo lo stesso Signore. Per questo, in Lui siamo già “una cosa sola” (cfr.Gv 17, 20-21), in attesa che venga l’ora in cui ci ritroveremo, con gioia, nella Città Celeste, dove «non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno» (Ap 21, 4), perché Dio sarà tutto in tutti (cfr. 1Cor 15,28)!

 



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