G8 a L’Aquila: disagio post-sismico e istanze altermondiste

Di Antonello Ciccozzi

26 Giugno 2009   23:31  

Abstract: Per organizzare efficacemente il dissenso contro il G8 che si terrà a L’Aquila è essenziale trovare degli elementi di convergenza tra la situazione di una città post-sismica e le istanze essenzialmente altermondiste che solitamente orientano gli stilemi di protesta in questi eventi. Catalizzare questi due poli in un’unica manifestazione può essere possibile per mezzo di un’integrazione all’interno del tema accomunante della politica della carità connesso alle strategie della shock economy, ossia sulla questione della funzione mimetica della solidarietà al minuto, pensabile come fattore di mascheramento delle spese per le grandi opere di (in)utilità sociale. Se la critica alla politica della carità può incarnare un polo di contestazione, in ambito propositivo potrebbe essere percorribile un discorso avente per oggetto le tematiche della sostenibilità.

L’Aquila è un capoluogo di regione che un terremoto ha spogliato  - in meno di un minuto – della metà del suo tessuto abitativo, del centro storico, di tutti i poli amministrativi e istituzionali, dell’ospedale, dell’università. Così, dal sei aprile 2009, L'Aquila è un angolo di disperazione in mezzo al traballante mondo dell’opulenza avanzata, appeso alla speranza di risalire la china grazie a circa 3 miliardi di euro per fronteggiare l’emergenza e ai circa 5 miliardi di euro spalmati in ventiquattr’anni (una cifra irrisoria in relazione a quanto stanziato per gli altri terremoti e ai danni della città, una promessa in tempi in accettabilmente lunghi). Oggi a L’Aquila le ordinarie divisioni politiche si sono dissolte in un unico «partito della ricostruzione», legato al cordone ombelicale della Protezione Civile, nutrice onnipresente e folle, in una schizofrenia che riesce a mettere coerentemente insieme l’aiuto amorevole e il colpo di Stato. Tutto avviene nella cornice di un welfare di emergenza in cui possono (con)fondersi carità e controllo, dove lo stato di necessità diventa il pretesto per l'imposizione della scelta calata dall'alto.

In questa situazione è parso da subito difficile trovare dei nessi di corrispondenza tra le esigenze locali e gli stilemi di protesta (inter)nazionale che solitamente accompagnano eventi politici come il G8.

Trovare una convergenza tra i fattori di disagio locale e le istanze globali di contestazione che, in eventi come il G8, rivelano ormai degli elementi di costanza, può essere possibile se si individuano temi che siano in grado di catalizzare all’interno di un contesto di senso unitario questi due scenari al momento apparentemente molto distanti. L’Aquila è ora - nel paradosso dell’eccezionalità di un evento catastrofico - diventata a una sorta di «Sud del mondo», uno slum intraoccidentale, un mondo locale messo "sottosopra" dalla catastrofe. Il terremoto ha stravolto l’orizzonte esistenziale locale, e adesso definisce inesorabilmente la norma da cui rialzarsi. Il sei aprile l’Abruzzo aquilano è stato - per quaranta secondi - il posto peggiore del mondo: uno dei tanti luoghi del nostro più o meno precario benessere occidentale si è trasformato, in un certo senso, in un’Africa da cui risalire. È chiaro che in questo contesto la composta disperazione dei primi giorni è degenerata col tempo, col caldo, in forme di disperazione, vissute tra ebetudine e parossismo collettivo.

Ricostruire l’aquilano riguarda un fatto di grandi opere pubbliche, e qui la carità rischia di tradursi più che in aiuto effettivo in una forma di propaganda paternalistica del potere. Tutto ciò avviene, va detto, nella cornice di una politica nazionale dove il Governo, mentre promette cifre per la ricostruzione intorno agli otto miliardi di euro, ha messo in piedi un carrozzone della solidarietà popolare che - tra gratta e vinci e trasmissioni televisive  votate alla raccolta di offerte al minuto – ha saturato l’opinione pubblica di un’atmosfera dell’elemosina che a lungo termine può portare al distanziamento. lo slogan del "non toccare le tasche degli italiani per ricostruire L'Abruzzo" omette subdolamente che questo sisma, il primo terremoto urbano da circa un secolo, non ha meritato, unico tra i terremoti del secondo dopoguerra, una tassa di scopo.

Nel frattempo il governo tiene in caldo il progetto per il Ponte sullo stretto di almeno quattro miliardi di euro; e, vergognoso, mentre ingrassa i media di regime con il défilé dell’ impegno, stanzia in silenzio 13 miliardi di euro per i nuovi caccia F35. Perché non mettere quei soldi, nel silenzio che si richiede all’aiuto per l’emergenza del terremoto, e chiedere donazioni per i caccia? Il giubilo di Bruno Vespa per i due milioni di euro spulciati agli italiani con gli sms da un lato pare dire «ecco fatto! Abbiamo risolto!» dall’altro nasconde opere come ponti e altre grandi operette.

Le reminiscenze scolastiche che accomunano tutti ricordano il dettame evangelico che Manzoni pone attraverso il monito che Don Ferrante rivolge alla moglie, e che rimanda a questa sostanza: l’aiuto si fa concretamente e in silenzio, altrimenti è propaganda. Ancora una volta risulta problematico distinguere l’aiuto dallo sciacallaggio. L'Italia sente dai media di vacanze e crociere per i terremotati abruzzesi, intanto le fabbriche chiudono, la gente perde il lavoro; rubare il lavoro a una città ferita è puro sciacallaggio, è un atto che non può non destare indignazione. Al contempo la recente campagna elettorale della sinistra democratica ha preferito focalizzare l'attenzione degli italiani sui passatempi erotici di Berlusconi. Se Berlinguer parlava agli operai e leggeva Gramsci, inquieta pensare a Franceschini che parla di veline e si documenta su Novella2000, mentre L'Aquila sanguina nell'indifferenza, e le bende della cura diventano bende del silenzio. 

  Pertanto va notato che in tale scenario è possibile una convergenza delle istanze di contestazione entro una cornice concettuale accomunante, quella delle strategie post-coloniali intrinseche agli effetti perversi delle politiche di aiuto umanitario. Qui è individuabile un tema condivisibile di opposizione verso la politica della carità, ravvisabile oggi in quella strategia che mimetizza - a mezzo della litania della solidarietà al minuto – il silenzioso sperpero di denaro pubblico in grandi opere di dubbia utilità sociale e di sicura accessorietà rispetto alle necessità effettive dei cittadini.

Le situazioni di emergenza, come quelle causate dalle catastrofi naturali, portano di fatto a scenari entro cui risultano praticabili strategie finalizzate e favorire grandi investimenti calati dall’alto. questa è l’atmosfera della shock economy, in cui le popolazioni locali, paralizzate dal trauma collettivo e dalla necessità di aiuto, tendono a non opporre resistenza nei confronti delle scelte di interventi diretti ad aiutare più gli investitori che gli interessati. Lo scialacquamento silenzioso delle risorse in opere poco utili è ciò che accomuna, in senso ampio, oggi L’Aquila all’Africa (basti pensare alle spese per gli armamenti nel mondo, alla fandonia delle missioni su Marte in cerca di acqua, e via dicendo). 

A livello della protesta simbolica è da notare che un luogo di convergenza tra L’Aquila e i movimenti altermondialisti può essere inquadrato nel concetto cardine di «zona rossa»: la zona rossa è il margine del potere contestabile, il luogo che in ogni G8 sancisce un confine e quindi una possibilità di ritualizzare la rivolta attraverso la simbologia dell’assedio a un limite. La zona rossa interdetta rappresenta in un certo senso anche la retrocessione a tabù della visione di «sinistra» del mondo. La zona rossa a L’Aquila è ora incarnata nell’interdizione del centro storico della città, chiuso in ogni angolo da presidi militari: «Il centro storico è zona rossa», così sanciscono le forze dell’ordine. La parziale apertura dei giorni scorsi non tocca la sostanza del ragionamento.

Beffardamente, la zona rossa a cui tutti gli aquilani sfollati nei campi possono, anzi sono costretti ad accedere, è rappresentata dai bagni della ditta Sebach, gli orrendi ma indispensabili cessi chimici (costituiti da un parallelepipedo di plastica di un metro quadro, quasi sempre di colore – appunto – rosso) che hanno invaso la città e che simboleggiano la privazione di bisogni elementari, la fine della comodità, la necessità entro cui la carità diventa beneficenza, ciò che prima rappresentava la penuria diventa lusso. Quei cessetti di plastica sono il simbolo di una strategia dove il campo di accoglienza diventa strumento di controllo attraverso la riduzione delle persone a una massa di disperati (i containers avrebbero consentito maggiore autonomia agli sfollati, e quindi maggiore possibilità di autodeterminazione, questo evidentemente avrebbe consentito minore chances di controllo da parte di speculatori).

Se è grossolanamente eccessivo, fastidioso, offensivo, identificare in toto questi campi con i lager, è omissivo e scorretto rappresentarli solo come strumento di soccorso: in essi c'è anche controllo, attraverso il concentramento e la riduzione delle masse alla necessità della soddisfazione dei bisogni primari. Non si tratta, per così dire, né di panacee né di veleni, sono medicine dai pesantissimi effetti collaterali. pertanto si tratta di rivendicare un diritto a cure più consone, più sostenibili.

 Infatti, se questo è quanto concerne l’orizzonte contestativo, vedrei nelle problematiche inerenti alla sostenibilità (ambientale, geologica, economica, sociale) un nesso propositivo che può trovare nella situazione aquilana un’occasione di praticabilità: L’Aquila di domani dovrebbe essere una città esemplare costruita sul valore di una socialità sostenibile, non sull’interesse di un’economia dello sciacallaggio propinata alle masse nella mimesi dell’aiuto.

  Lavorare perché il sistema dei movimenti altermondialisti acquisisca consapevolezza intorno alla situazione aquilana può essere un’occasione per evitare strumentalizzazionAntonello Ciccozzi docente di antropologia all'Università dell'Aquila  e che potrebbero ledere l’eticità della contestazione: se la protesta pretendesse di calarsi "dall'alto" sulla città si rivelerebbe sostanzialmente omologa alle strategie speculatorie che a L'Aquila già pratica con successo il Governo. In al caso è opportuno capire se chi viene a L'Aquila viene per aiutare o per aiutarsi, e il primo caso non può esistere se non nel riconoscimento di un diritto di precedenza tematica alle questioni e alle organizzazioni locali. Solo così i manifestanti eviterebbero il rischio di esser visti dall’opinione pubblica "conservatrice" nazionale e mondiale come dei rompiscatole egoisti che ripropongono dei cliché arrugginiti nella miopia verso la gravità di situazioni immediatamente reali. Per questo, inserendo L'Aquila come anomalia intraoccidentale nei temi di critica al postcolonialismo insito negli aiuti umanitari, tra politica delle carità e shock economy, si potrebbe conferire alla protesta la possibilità di contestualizzarsi nella valorizzazione delle lotte territoriali, di superare il limite di certi canovacci di contestazione, che, se carenti di elementi di attualità, passano troppo spesso agli occhi della massa a-critica come semplici momenti di folklore politico. D'altra parte, se da un lato si può chiedere un rispetto particolare per le caratteristiche della attuale situazione aquilana, tale rispetto non può diventare un pretesto, una trovata ideologica per negare il diritto della nazione e del mondo di esprimere dissenso contro il G8.

   Su un piano "pratico" va pure notato che L'Aquila è una città da sempre relativamente "isolata" rispetto ai grandi canali di comunicazione nazionale, perciò difficilmente raggiungibile; perciò la manifestazione (inter)nazionale potrebbe venire bloccata dalle forze dell'ordine già fuori dal territorio comunale, sancendo una "zona rossa" esterna alla città, e aprendo uno scenario di doppia contestazione, in cui gli aquilani si troverebbero a mettere autonomamente in atto la loro protesta all'interno della città, dentro a questo limite estemporaneo, preventivamente separati  dai manifestanti provenienti da altri ambiti.  Viceversa nel caso, mi pare meno probabile, di spazi condivisi di contestazione prevedere e organizzare una distinzione tra la manifestazione aquilana e quella (inter)nazionale potrebbe portare, nell'interesse di valori accomunanti, a un riconoscimento della particolarità della situazione, a un segno di rispetto e di comprensione verso il terribile disagio locale.

Comunque va anche detto che gli aquilani dovrebbero acquisire consapevolezza sul fatto che la scelta qui è ridotta a due opzioni: per chi vive in questa città non manifestare in massa e con decisione significherebbe esprimere implicitamente e irrimediabilmente consenso all'operato del Governo, di fronte al palcoscenico mondiale che in quei giorni sarà allestito lì. 

Preciso tutto questo in nome di un civile diritto all’espressione del dissenso politico, inteso come necessità imprescindibile per la garanzia della coesistenza democratica. 

Antonello Ciccozzi docente di antropologia all'Università dell'Aquila 

 


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