L'Aquila: la vittoria della Bruttezza nell'imperante cementificazione

di Luca Paolo Virgilio

07 Settembre 2011   17:15  

Riceviamo da Luca Paolo Virgilio e pubblichiamo

"Passata la sbornia mediatica che ha fatto del nostro terremoto un perfetto reality show per masse dormienti, oltre che un porto franco per fare affari in libertà in spregio a ogni regola giuridica e democratica, è calato il sipario su un territorio che continua a subire ogni giorno nuove ferite. Oggi, noi Aquilani possiamo finalmente celebrare il trionfo della nuova regina del tessuto urbano e sociale, la fragorosa e indiscussa protagonista del panorama cittadino, e ora anche di quello del circondario rurale: la Bruttezza, esplosa in un orgasmo di laterizi, calcestruzzi, aumenti di cubature, sfregi ambientali, colori accecanti e chi più ne ha più ne metta.

Già prima dei crolli, il nostro territorio era stato vittima di un’ondata di urbanizzazione selvaggia che aveva contribuito a devastare le periferie, soffocandole sotto colate di cemento gettate qua e là senza alcun criterio, se non la solita benedetta logica del profitto. Nel deserto morale post-sisma, il redditizio entusiasmo dei palazzinari, con la complicità di amministratori incapaci, ha dato il via libera a una nuova campagna di cementificazione selvaggia, svincolata da ogni controllo, in nome di un’emergenza edilizia più inventata che reale. Sono così iniziati a spuntare come funghi capannoni industriali senza industrie, spaventosi condomini degni del peggior brutalismo architettonico, ecomostri a tre teste. Una rassegna di orrori che si arricchisce quotidianamente tra i silenzi delle istituzioni e l’indifferenza della gente.

Aborti cementizi di ogni forma, stile e colore, hanno preso vita come mostri dalle mani di uno scultore del maligno: tra riproduzioni di palazzi arabeggianti e villette tinteggiate con evidenziatori, immaginifici tributi a Gotham City ed esperimenti architettonici che meriterebbero il carcere, una città ormai inerme che fu d’arte e cultura viene ridotta a una penosa mostra di kitsch terrone; una poetica scenografia da cartolina a una poltiglia informe di cemento.

L’altra faccia di questo Rinascimento al contrario è la fiorente “cultura delle rotonde”, dottrina urbanistica ormai egemone che ha imposto una riproduzione seriale e infinita di anonime rotatorie stradali a ogni incrocio, al posto di semafori e STOP che nel loro indecente anacronismo mal si adattavano alle illuminate visioni avant-garde degli Ingegneri Sapienti e dei Buoni Protettori Civili. Mi domando se non ci sia davvero un modo di coniugare sicurezza stradale e, se non bellezza, quanto meno una dose minima di decenza estetica.

Ma il senso del bello non è da tutti, e oggi un tipico rientro a casa aquilano assume i contorni di una malinconica traversata tra pezzi di Val Padana e immagini sbiadite di Atlantic City, scene ugualmente decadenti, e spesso, data la situazione, anche cadenti. Strade provinciali immerse in nebbie di recente apparizione (miracoli dei terremoti), accecanti neon arancioni emessi da pali della luce orwelliani, massicci capannoni industriali semivuoti. Un sogno ininterrotto di zona industriale ha rimpiazzato la vista dei parchi nazionali, dei campi di grano, delle balle di fieno, perfino del cielo. L’Aquila è stata brutalmente trasformata in un paesino brianzolo, e in questa santificazione del Brutto non c’è spazio per giustificazioni istituzionali: è stato un processo selvaggio e caotico, ma per nulla casuale, celebrato in nome della “Grande Edilizia che fa crescere il PIL” e imperdonabilmente trascurato (semplice negligenza?) da chi doveva vigilare.

Da “L’Aquila bella me” a Regno dei Palazzinari e Città delle Rotonde, il passo è stato breve ma non indolore. La sistematica trasgressione di qualsiasi vincolo estetico, architettonico e paesaggistico permette al Brutto di prosperare, al fianco della rassegnazione degli Aquilani, ai quali un po’ per volta vengono rubati un pezzo di verde, di ossigeno, di cielo, di terra, occupati da un cemento così armato che sta per ammazzarci tutti.

Gli Aquilani, che vagano come zombie per i centri commerciali, sembrano indifferenti davanti al Grande Orrido che gli fiorisce attorno. È un atteggiamento comprensibile per gente stanca e martoriata, ma non per questo giustificabile. Dopo aver perso la magia del centro storico, unico baluardo del Bello contro la deriva palazzinara, non possiamo lasciar distruggere l’ultima risorsa che ci resta: il nostro territorio, brandelli di bellezza nella regione più verde d’Italia, a cominciare dalle campagne dell’immediata periferia cittadina. Occorre salvaguardare l’estremo legame con la nostra storia, l’essenza stessa dei luoghi che abitiamo, l’ultima opportunità di rinascita della città abbandonata a se stessa. Ci stiamo lentamente autodistruggendo, narcotizzati dai fumi di una vita improvvisamente più brutta.

L’urgenza della situazione impone di salvare il salvabile e invertire la rotta fin da subito: costruire non per devastare il territorio, ma per valorizzarlo. Fermare i cantieri più invasivi, smetterla di occupare estensivamente nuovi terreni incontaminati, ma soprattutto iniziare per davvero a recuperare quello che c’è già. E quando c’è da costruire da zero, che l’edilizia urbana sia integrata nel contesto, rispettosa della storia dei luoghi e dell’ambiente, discreta. Bella. Dobbiamo pretendere piani regolatori, severi vincoli ambientali, rigidi controlli e sensibilizzare sulla necessità di tutelare il nostro patrimonio paesaggistico.

Perché s’intravede già l’ombra di un nemico anche più pericoloso del cemento: è l’Assuefazione, che poco alla volta ti convince che in fondo L’Aquila va bene così, cosa sarà mai un palazzone in più su quel prato incolto, una variante sopraelevata che cancella per sempre la vista del Velino, un capannone che sovrasta una campagna altrimenti inutile! Storditi dall’aria irreale del Regno della Bruttezza, ci dimenticheremo in fretta com’eravamo, com’era L’Aquila; faremo nostro il gusto dei palazzinari; ammireremo dentro teche rovine medievali appartenute a tempi lontani; voteremo come sempre il Partito del Nulla di turno, sperando che assicuri un posticino in Comune a nostro figlio. E, forse, ammetteremo in cuor nostro quanto è stato meschino non muovere un dito mentre questo schifo ci accadeva davanti."


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