La città dell'immota manet sulla terra ballerina

di Alessandra Di Vincenzo

27 Luglio 2009   17:08  

Pubblichiamo una lettera di Alessandra, aquilana, sfollata  sulla costa. 

‘’Ho impiegato molto tempo per riorganizzare i pensieri e le emozioni, profondamente lesionati da un dolore che ancora oggi non riesco a contenere e ad elaborare.

Quella notte, quella terribile notte che il mondo intero ormai conosce, ha deviato la mia vita, quella di tutti gli aquilani e quella di coloro che abitano i tanti paesi limitrofi verso un qualcosa di totalmente differente da ciò che era stata fino ad allora; ha inoculato in ognuno di noi un senso di incertezza e di impotenza talmente devastanti da non riuscire ad avere neanche la capacità di comprendere davvero ciò che ci era/ci è accaduto.

Non avrei mai pensato di dover affrontare un lutto personale e collettivo così grande; è proprio vero che quando le disgrazie umane non ci coinvolgono direttamente si può essere estremamente sensibili e solidali (ed anche ciò è possibile soltanto se le idee di giustizia, che ci fanno stare dalla parte dei deboli, nascono, crescono e maturano dentro di te, per diventare parte strutturale del proprio io), ma non si può nella maniera più assoluta comprendere – neanche lontanamente – ciò che prova chi le vive. Per inciso: al sig. Travaglio e a tutti coloro che hanno definito il nostro un terremoto di “media intensità”, volendo con questo far apparire L’Aquila come una città fatta di carta, dico che – non avendo vissuto ciò che abbiamo sentito e vissuto noi sulla nostra pelle – varrebbe la pena quanto meno di documentarsi in maniera più seria prima di emettere sentenze a buon mercato, a meno che tali sentenze non siano il frutto, tutto italiano, della ricerca dello scandalo e della strumentalizzazione a tutti i costi.

Ma torno alle mie riflessioni.

Ho lasciato L’Aquila per molti anni, quando ero ancora in fasce, nonostante l’abbia continuata a frequentare per legami familiari da parte materna. Sono tornata a viverci da adulta, iscrivendomi all’Università e, successivamente, per un ricongiungimento “definitivo” con le mie radici, attraverso i miei genitori, che nel frattempo avevano deciso di porre lì una base solida e duratura.

Ho amato sempre L’Aquila per la sua estrema, seppur nascosta, bellezza: una città da scoprire e riscoprire con meraviglia ogni giorno, nei suoi vicoli, nelle sue piazze, nei suoi palazzi, nei suoi cortili e nei suoi giardini, questi particolarmente e gelosamente tenuti nascosti alla vista umana. Una città da osservare – come dicono giustamente in molti – sempre con lo sguardo in su.

L’ho aspramente criticata nel corso del tempo, per quell’indolenza tipica di molti suoi cittadini, restii ad ogni presa di posizione - spesso anche a loro stesso danno -, apparentemente insensibili ad ogni sollecitazione e testardamente ancorati ad una vita senza troppi pensieri, caratteristiche che bene si affiancano ormai a quelle, più in generale, italiane degli ultimi 30 anni.

L’ho sofferta, perché faticosa da vivere e da percorrere; e l’ho spesso mal sopportata, per quel suo clima rigido e severo, a me affatto congeniale.

L’ho, soprattutto negli ultimi dieci anni, guardata con infinita tristezza; l’ho vista lasciata colpevolmente sprofondare in un degrado progressivo che non meritava, schiaffeggiata e ridotta a poco più di un paese maltrattato e violentato.

Ho pensato più volte di andarmene da questa città. Per la verità, ho pensato – in un crescendo interiore continuo – di andarmene dall’Italia, da questo paese piegato su se stesso, senza più alcuna coscienza sociale e senza più memoria storica, in balia di una schiera di impresentabili, di piduisti, di mafiosi, di sfruttatori, di fascisti, di fascistoidi e di conniventi.

E invece, sono rimasta a L’Aquila. Ho scelto, giorno dopo giorno, di restarci, di non abbandonarla di nuovo. Ho scelto, a prescindere dai legami di affetti e di lavoro che di fatto - gli uni in positivo, l’altro “perché ce l’hai e non è facile rinunciarci” - mi impedivano di lasciarmi tutto alle spalle con facilità, di continuare ad investire in qualche modo su questa città. Così come hanno fatto altre persone, altri miei amici e altre mie amiche che, nonostante tutte le difficoltà che il nostro territorio ci ha da sempre riservato, hanno resistito con la loro presenza, dando ognuno il proprio contributo per farla esistere ancora e, possibilmente, per renderla migliore.

Questa volta è stata la terra ad essere di una perfidia inaudita (non che anche in questo caso non siano da ravvisarsi gravissime responsabilità umane: vedi classificazione sismica dell’Aquila da 1 a 2; vedi Casa dello studente; vedi Ospedale); ha azzerato, in poco meno di un minuto, le vite, le storie, i ricordi, la città e interi paesi (dell’aquilano, non di tutto l’Abruzzo, come i media si sono scatenati, in una incomprensibile gara di falsità, a dire e a scrivere). E’ vero, sapevamo - chi più, chi meno - che questa nostra terra, all’incirca ogni tre secoli, da madre accogliente diventa crudele matrigna.

Una parentesi: mi sono sempre chiesta il vero senso di quell’Immota Manet che campeggia sullo stemma cittadino. Ho pensato spesso che indicasse proprio l’immobilità peculiare della sua gente mentre tutto intorno muta e si muove; ed ho attribuito ad esso, ovviamente, un’accezione del tutto negativa. Ora, dopo il disastro e ancor più alla luce di ciò che ci ha trasmesso la storia dell’Aquila, credo che il significato più profondo sia da ricercare nella infinita determinazione della città e del suo popolo a restare lì, proprio lì, ricostruendo ogni volta con illimitata tenacia il tessuto urbano e sociale che la terra su cui poggia destabilizza ciclicamente con estrema ferocia.

Dal 10 aprile sono in un albergo a Pescara, sfollata – insieme ad altre circa 30.000 persone – logisticamente e idealmente dai nostri luoghi e dal nostro tessuto sociale, frantumato in migliaia di pezzi, distrutto come la “mia” amata città.

Poi, come in una sorta di accanimento terapeutico, l’8 giugno ho perduto mio padre, che aveva lottato per anni, con caparbietà e rarissima voglia di vivere, contro la sua malattia. Il terremoto, in qualche modo, ha fatto cedere anche lui e L’Aquila ha perso un altro pezzo di storia.

Nello stesso giorno mi è stato tolto anche il lavoro, perché l’azienda in cui 350 donne e uomini (per  non parlare delle diverse decine di persone che lì dentro si sono succedute negli anni attraverso i più disparati contratti a termine e che poi sono state, dalla prima all’ultima, gettate per strada – quando non servivano più – senza tanti complimenti) hanno lavorato per quasi dieci anni, investendo tutto su di essa, ha deciso di chiudere.

Così, senza alcuna remora. Senza la seppur minima volontà di trattare (per la verità, mentre scrivo questi miei pensieri, viene tirata fuori dal cilindro aziendale una “proposta” – se così può essere chiamata –: la richiesta ai dipendenti, enunciata durante l’incontro con i sindacati a Roma presso il Ministero dello Sviluppo il primo luglio e confermata senza recedere di un passo il 9 luglio in un successivo e analogo incontro, di accettare il congelamento dell’anzianità di servizio a tempo indeterminato, l’abolizione della “quattordicesima”, l’inquadramento dal 4° al 2° livello contrattuale e, di conseguenza, una retribuzione notevolmente al di sotto di quella percepita fino ad aprile, che era di circa 1.100 euro mensili; inoltre, la stessa azienda ha dichiarato che tornerebbero a lavorare soltanto circa 150 persone e le restanti circa 200 resterebbero in cassa integrazione fino al 31 dicembre 2009, data in cui verrà valutato dai vertici aziendali se le commesse presenti potranno garantire la ripresa del lavoro per tutti. Tutto ciò è stato rappresentato come condizione necessaria affinché resti “aperta” la sede dell’Aquila).

Senza porsi affatto il problema di ciò che tale decisione avrebbe determinato (ma è credibile che non se lo siano posto? O, più verosimilmente, lo hanno fatto eccome, ma hanno approfittato proprio del disastro che ci ha colpiti per “togliere delle tende” che già da anni minacciavano di togliere, rendendoci la vita lavorativa tutt’altro che serena? E, paradossalmente, mentre la Transcom le tende le vuole togliere, più di 20.000 aquilani nelle tende ci sono stati messi e continuano ad alloggiarvi ormai da più di tre mesi, con la prospettiva realistica di doverci restare ancora a lungo!): un altro terremoto, devastante quanto quello operato dalla natura.

L’Aquila non potrà ripartire senza lavoro e le persone come me, che adesso più che mai vogliono tornare lì, saranno costrette a superare una prova ancora più difficile di quella che già il sisma ci ha regalato in un bel pacchetto con tanto di fiocco.

Ringrazio quanti, sulla costa, ci stanno dando la possibilità – spesso con gentilezza e sensibilità partecipata – di recuperare le risorse necessarie ad affrontare anni che saranno per tutti noi durissimi.

Ma dovrò tornare presto a L’Aquila. Resisterò per essa, per la sua gente e insieme alla sua gente; vigilerò con attenzione e intransigenza affinché nessuno squalo (con tutto il rispetto per la specie animale) pensi di farne il proprio banchetto, per riaverla un giorno più bella di prima, socialmente vivibile e, magari, finalmente apprezzata dentro e fuori le mura come merita; lotterò insieme agli altri affinché proprio la ricostruzione, che dovrà essere garantita al 100%, venga decisa dal basso attraverso la diretta partecipazione degli aquilani e non da scelte calate dall’alto, subite passivamente e che certamente non rispecchieranno le reali esigenze della popolazione e del territorio.

Forse è davvero questo il senso di Immota Manet: di una città unica, fondata a tavolino e sorta su una terra strutturalmente ostile e ballerina; di una città che, quasi contro ogni logica, vuole stare lì, soltanto lì e per sempre lì.

E intanto, mentre scrivo, la terra continua inesorabilmente a tremare ed a lesionare palazzi, case, monumenti e animi…

Alessandra Di Vincenzo


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