In un paese avvezzo agli ossimori, dove
le emergenze sono la normale amministrazione e dove alla prevenzione
ci si pensa dopo le catastrofi, allorchè i sessantamila sfollati
dell'Aquila hanno sentito parlare di case provvisorie ma anche
durevoli, la notizia è stata accolta con compostezza. Quasi quattromila avveniristici moduli abitativi prefabbricati, montati su
due o tre piani, adagiati su cuscini antisismici: ecco la prima,
immediata soluzione proposta dal presidente Silvio Berlusconi, a
beneficio di 13mila e forse più sfollati. Costeranno 700milioni di
euro, l'edificio tipo costa 2,1 milioni di euro ha una superficie di 1700 metri quadrati e suddiviso in 35-30 alloggi di varia dimensione per circa ottanta persone. Ciascuna piastra antisismica di 2.200 metri quadri costa 600mila euro.
Non è la new town annunciata dal premier a poche ore dal sisma, sul modello di Milano Due, bensì venti quartieri disseminati in altrettante aree dell'aquilano per una estensione di ben 160 ettari. Una new town diffusa, insomma, intorno alla città in aree agricole quasi tutte distanti chilometri dal centro, o nei pressi dei borghi medievali del comprensorio.
Cosa costruire, come e dove è stato ufficialmente deciso in procedura d'urgenza e in deroga ai normali iter amministrativi dal commissario Guido Bertolaso. Il sindaco Massimo Cialente alza le spalle e conferma: “Hanno deciso tutto loro, io ho solo impedito che realizzassero un'unica mostruosa new town. Ci dovremo ora impegnare a non trasformare questi quartieri in tanti piccoli ghetti”. In una lettera del nove maggio il sindaco esprime però apprezzamenti sulle localizzazioni scelte dal Commissario, rese note la settimana seguente, di concerto con tecnici del Comune e gli esperti fiduciari Marino Bruno e Vincenzo De Masi. “La Protezione civile – garantisce comunque il sindaco – ha scelto con un setaccio rigorosissimo, sulla base di rilievi del rischio sismico e idrogeologico, e senza sapere di chi fossero le terre.”
Ma cosa ne pensano le migliaia di terremotati che in queste case dovranno viverci per un periodo temporaneo lungo anche anni?
Fino all'altro ieri nelle tendopoli se ne sapeva poco o nulla, la soluzione prospettata è stata poi generalmente considerata un'alternativa migliore rispetto ad un inverno dentro una tenda in una delle città più fredde d'Italia. Ha creato indubbio consenso il piglio decisionista di Berlusconi, un leader capace in poche ore di restituire la dentiera ad un'anziana signora, e di progettarti una nuova città in sole due settimane.
Un idillio che ora però si sta incrinando. I tanti sfollati che si sono visti espropriare da un giorno all'altro i loro terreni hanno assediato il quartier generale della Dicomac: “Il terremoto ci ha portato via la casa – hanno urlato disperati - ora ci volete togliere quell'unico pezzetto di terra che ci era rimasto!”.
Rabbia e sconcerto si diffonde poi tra i cittadini di Onna, paese simbolo della tragedia aquilana, con i suoi 41 morti, meta di pellegrinaggio di vip e leader politici dall'espressione mesta e contrita. Il paese rischia di non essere ricostruito perchè, a quanto pare, si trova in una zona a forte rischio idrogeologico. “Come la vicina area industriale - accusano gli abitanti - che invece verrà rimessa a nuovo ed anzi ampliata”
Forti critiche vengono poi espresse dalle centinaia di cittadini e studenti che si sono uniti in tanti comitati e che vogliono essere protagonisti della ricostruzione della città in cui hanno deciso nonostante tutto di restare a vivere. Sono questi giovani ciò che resta della ricchezza culturale dell'Aquila, dopo la diaspora post-sismica, la materia prima dell'economia della conoscenza, come pontificavano i politici nelle varie conferenze e comizi, e che ora, nel momento del maggior bisogno di intelligenza e progettualità quasi nessuno, nelle alte sfere, prende in considerazione.
Tra questi c'è Antonello Ciccozzi, ricercatore di antropologia culturale dell'Università dell'Aquila. Traccia su un foglio di carta tre cerchi concentrici e spiega. “ Le new town sono state pensate fuori dalla cinta periferica, oltre il terzo anello, distinte dai confini urbani. Sono espressione di un moto di separazione, di allontanamento degli sfollati, e probabilmente, tramite ciò di rimozione dell'evento catastrofico”. Le new town gli ricordano le aree Peep, che durante sacco edilizio di Roma, raccontato da Pier Paolo Pasolini, spuntavano nelle campagne come barbari all'orizzonte.
C'era la possibilità, argomentano i giovani urbanisti, di scegliere aree più vicine al centro, piazzare i moduli al posto di molti palazzi crollati, per non stravolgere il tessuto urbano e mantenere una continuità biografica tra il prima e il dopo. Non si capisce inoltre perchè non siano stati utilizzati a costo zero terreni demaniali come la Polveriera o l'area delle casette Cogefar, o anche le caserme dismesse. Ci si chiede perchè poco o nulla si sia fatto per utilizzare come temporanea sistemazione, tutti gli appartamenti sfitti e agibili della città.
Una risposta a questa strategia dell'altrove - dei luoghi e delle scelte - la fornisce l'architetto e dirigente regionale Antonio Perrotti, una sorta di Lombroso delle mappe catastali, capace di leggere nella filigrana dei lotti gli interessi politici ed economici che dominano la città dal dopoguerra ad oggi. “La scelta delle aree - spiega - non dipende solo da criteri idrogeologici. Sono stati risparmiati dall'esproprio grandi lotti in prossimità del centro storico, di proprietà di aristocrazie terriere e immobiliari, e che tra qualche anno varranno oro “ Qualche esempio: “Gli ettari di Lenze di Coppito, inseriti già nel Prg vigente come area di espansione edilizia e direzionale, vicina all' ospedale e all'università potrebbero essere stati salvati dalla divina provvidenza – ironizza Perrotti - essendo oggetto di un accordo di programma che vede protagonisti le banche e anche gli enti ecclesiastici.”
Le piccole new town, prosegue l'architetto “sono in molti casi cunei di urbanizzazione che moltiplicheranno il valore delle terre circostanti. Un esempio sono i siti di Bazzano e Sant'Elia, intorno a cui da anni insiste la proposta di un programma di riqualificazione urbana”. Secondo questa lettura, insomma, gli aquilani vengono allontanati dalla loro città per salvaguardare, sotto le antiche mura, gli spazi di manovra politica ed economica della ricostruzione.
Un'altra possibile lettura di ciò che sta accadendo la fornisce indirettamente Aldo, un pensionato che era solito trascorrere le giornate ad osservare la varia e vociante umanità che gironzolava tra le colorate bancarelle del mercato di Piazza Duomo. “Io ho settantanni – spiega- non tornerà mai più passeggiare nella mia città – e non voglio morire in una palazzina in mezzo alle campagne. Penso che venderò ciò che resta della mia casa in centro e andrà via”. Una scelta che faranno anche molti precari e giovani coppie che hanno un mutuo sulle spalle, i tantissimi non residenti che in centro hanno seconde case lesionate, e non avranno soldi per ristrutturarle. Pronti ad acquistare sono la Fintecna e chi in Italia ha ingenti capitali da investire a lungo termine.
Per sfuggire all'insopportabile afa che avvolge le sonnolente tendopoli, saliamo fino ad Assergi, alle porte del Parco nazionale del Gran Sasso. E' un antichissimo borgo di casupole arroccate su una rupe, per la paura degli eserciti invasori, ma anche per il piacere tutto mediterraneo di poter chiacchierare lungo i vicoli, da finestra a finestra. Come accadrà a Collebrincioni, Arischia, Camarda, Roio e in altri paesini colpiti
dal sisma, anche nei pressi di Assergi sorgerà una sorta di new-village di moduli abitativi, che ospiteranno nei prossimi anni sessanta famiglie e forse più. I condòmini solo in piccola parte saranno di Assergi, gli altri arriveranno dal capoluogo, ci andranno a vivere anche famiglie di migranti. E' altissimo pertanto il rischio di una difficile convivenza e di conflitti anche inter-etnici.
Nelle tendopoli sparse sulle montagne e nelle valli, si aggirano anziani pastori transumanti, giovani agricoltori e donne dallo sguardo di brace che sono tutt'uno con la loro terra, con i labirinti di pietra del loro paese. E' possibile qui incontrare poeti a braccio che conoscono la Divina commedia a memoria, matriarche nerovestite che si sono salvate dal terremoto interpretando i sogni e dando retta al procurato allarme delle loro galline, forestieri fuggiti dalle città in cerca del silenzio e della semplicità. Che senso ha trasformare queste persone in silenziosi vicini di pianerottolo, impilare una comunità dentro pur confortevoli palazzine d'alta quota dove, direbbe Ennio Flaiano, non vale la pena di amare e soffrire, procreare e morire?
Filippo Tronca
già pubbllicato dal settimanale CARTA