Le macerie dei monumenti aquilani non sono cumuli di immondizia

di Antonio Gasbarrini

24 Giugno 2009   09:37  
 

Ad oltre due mesi dal sisma, quasi nessuno dei circa 1900 palazzi di pregio artistico sottoposti al vincolo ed alla tutela delle Soprintendenza, è stato protetto con tempestivi interventi di puntellamento. Stessa brutta sorte hanno subito le altre migliaia di palazzetti e case di civile abitazione abbandonati a se stessi, non solo dagli abitanti fuggiti in ogni dove, ma dall’approccio inadeguato di chi, a livello istituzionale, avrebbe dovuto provvedervi con la tempestività richiesta dalla gravità del caso: stiamo ovviamente parlando del Ministero per i Beni Culturali, della Regione Abruzzo per quanto di sua competenza, dei vertici della Protezione civile per la carente strategia di “salvaguardia preventiva” sino a qui “non” messa in cantiere.

Nel frattempo, le centinaia e centinaia di scosse forti susseguitesi da quel nefasto “lunedì Santo” (si fa per dire) del 6 aprile, hanno aggravato a volte in modo irrimediabile, la precaria situazione di instabili mura, pareti, pavimenti, tetti, soffitti, ora cascanti da tutti i lati, anche a causa delle insistenti piogge verificatesi, facendo così da detonatore al successivo sfarinamento del manufatto. Cosa succederà durante e dopo le più che prossime gelate invernali?

Non c’è stato un solo fabbricato del centro storico della città-territorio (L’Aquila e sue frazioni) e dei comuni viciniori ribattezzato dalla Protezione civile “zona rossa”, che sia stato risparmiato da questa distruzione in progress aggravata da cause naturali sì, ma anche favorita dalla totale assenza di una qualsivoglia tutela post-scossa media 6,3 della scala Richter di uno dei più prestigiosi (ex?) patrimoni architettonici italiani ed europei.

A dire fino in fondo la verità, i puntellamenti sino a qui effettuati con l’apporto determinante dei Vigili del fuoco che hanno perso anche la vita per mettere in salvo prevalentemente chiese (più d’una senza alcun valore artistico, ma esclusivamente devozionale), hanno determinato un oggettivo trattamento diversificato tra i beni appartenenti al patrimonio di uno Stato estero – la Città del Vaticano– e quelli facenti capo allo Stato italiano, alle comunità locali ed ai cittadini aquilani. Né l’ottimo intervento d’imbracatura sul traballante Castello Cinquecentesco o su qualche altra emergenza artistica di pregio, com’è avvenuto per la cupola del Valadier (Chiesa del Suffragio) e per la Chiesa di S. Giusta a Bazzano, va ad inficiare il nostro amaro ragionamento di fondo.

Benvenute, ovviamente, sia le armature in legno o in metallo già predisposte per gli edifici religiosi e per gli altri monumenti caratterizzati da una forte valenza architettonico-artistica (com’è facilmente riscontrabile per i “44 gioielli” già adottati da Paesi stranieri disponibili a finanziarne l’integrale recupero), sia ogni altro intervento finanziario pubblico che dovrà necessariamente profilarsi all’orizzonte.

Purtroppo, il centro storico della città dell’Aquila, giorno dopo giorno è caduto e sta sempre più cadendo a pezzi, non certamente per un cinico destino. Il forte rimbombo avvertito a Piazza Duomo

l’altro ieri (19 giugno) proveniente dalla vicina zona della Chiesa di S. Marciano, segnalava anche ai sordi l’ennesimo crollo d’un altro palazzo.

Disinformati dalle manipolazioni massmediatiche messe sin a qui in atto dalla strategia governativa tesa a minimizzare i devastanti effetti di un terremoto epocale che ha raso al suolo persino la convivenza civile di un’intera città-comunità, gli stessi aquilani deportati in massa nelle tendopoli e negli alberghi della costa, cominciano finalmente a prender coscienza della cruda, orribile realtà.

È stato sufficiente varcare l’off limits della “zona rossa” intra moenia (per arraffare come ladri, nei pochi minuti concessi dai Vigili del fuoco, qualche straccio di memoria da quegli irriconoscibili ambienti familiari offuscati ora da lacrime in caduta libera), per vedersi sbattuta in faccia tutto lo sfacelo da cui è attorniata la propria malconcia abitazione.

Le verifiche di agibilità in corso nel cuore urbano della città, che ha pressoché smesso di battere in vari quartieri disastrati (per tutti S. Pietro e S. Domenico), stanno comprimendo, e di molto, le iniziali ottimistiche previsioni basate sulle sommarie diagnosi effettuate negli edifici periferici. Ci vorranno dai cinque ai dieci anni per riportare l’attuale stinto splendore del centro storico alla sua primitiva luminosità.

Nell’immediato, due ineludibili questioni di fondo rimangono comunque aperte: i tempi necessari per porre in atto la salvaguardia invocata e le ingenti risorse finanziarie indispensabili per le propedeutiche operazioni di carpenteria, nonché per il recupero e la catalogazione delle macerie.

Circa i tempi, al momento l’orologio della sventura è rimasto paralizzato alle 3 e 32, mentre la clessidra della rinascita, appena rovesciata, s’è subito ostruita di fronte all’estrema complessità dell’accaduto ed agli “zero euro” finora stanziati per queste necessità.

Il labirintico dedalo di vicoli e vicoletti costeggiati spesso da Palazzi dalla mole imponente (pensiamo a via S. Martino), renderà la vita difficile, molto difficile, a chi dovrà intervenire per evitare un malaugurato abbattimento o la completa ostruzione degli indispensabili spazi di scorrimento per camion, gru, ecc. La recentissima messa in sicurezza degli edifici fiancheggianti il centinaio di metri di Corso Federico II (può essere considerato tra i tratti di strada più larghi), è la cartina di tornasole delle più che complesse problematiche d’affrontare.

Esigere l’elaborazione di un piano organico che riduca al minimo gli inconvenienti accennati, non ci sembra un’idea peregrina: il blocco urbano soggetto agli interventi, va unitariamente considerato alla stregua di un organismo vivente. L’improvvisazione sinora registrata dovrà essere immediatamente abbandonata. Tutti i dilettanti urbanisti messisi autonomamente in campo con saccente quanto improvvida faccia tosta per la costruzione della ventina di mini-towns accerchianti il capoluogo, vanno tolti di mezzo a furor di popolo (a cominciare dal Presidente del Consiglio, per continuare con la “ministra” per il Turismo, e, per finire, con il Capo della Protezione civile per quanto riguarda questo aspetto).

Circa la metodologia da seguire per i futuri restauri, si prenda lezione dai gravissimi errori commessi (la cementificazione con cui pietre e mattoni secolari sono stati disinvoltamente assemblati) e s’imbocchi decisamente, dove sarà possibile, la tecnica dell’anastilosi, ovvero “l’arte di rialzare colonne”: «In architettura e, soprattutto, in archeologia è la tecnica con la quale si rimettono insieme, elemento per elemento, i pezzi originali di una costruzione distrutta, per esempio dopo un terremoto».

Perciò i lenti, artigianali procedimenti del rimettere su, pietra su pietra e mattone su mattone – originari – da ricollocare nello stesso incrocio geometrico cartesiano, potranno garantire una ricostruzione fedele dell’architettura sventrata o crollata del tutto.

Questo metodo presupponeva e presuppone una forte mobilitazione di risorse umane (giovanili innanzitutto) già specializzate o formate ad hoc, in grado di trasformare pazientemente il caotico disordine delle macerie, del tutto abbandonate a sé stesse come fossero repulsivi cumuli d’immondizia, in un potenziale e futuribile ordine facilmente conseguibile con l’apporto strumentale della grafica tridimensionale computerizzata.

Detto in altro modo, partendo dalle immagini già disponibili del manufatto, prima che fosse sfregiato o maciullato dal terremoto, è possibile simulare sul computer la sua originaria volumetria fisica, nonché riplasmare, sin nei minimi dettagli, la sua tradizionale configurazione estetica.

Attualmente (sono trascorsi una ottantina di giorni da quella stramaledetta notte), a che punto siamo rispetto alle basilari esigenze evidenziate?. Malissimo, almeno stando a vedere la brutta fine sinora riservata dai responsabili ad uno dei più amati, anche se meno celebrato, monumenti aquilani: il Torrione.

Svettante con i suoi originari 15 metri di mattoni impilati in uno dei primi quartieri popolari periferici della città, smozzicato ed irregolare in ogni suo centimetro cubico, il Torrione – con la sua totemica, fantasmatica presenza – ricordava i fastigi architettonici del passato, ma nel contempo ammoniva. Né il bruttissimo palazzaccio appicicatogli addosso (costruito negli anni 70? e che tutto sommato sembra aver resistito discretamente alla “bottaccia”) sminuiva il fascino della sua calda immanenza.

Un pannello didattico esplicativo ubicato nei suoi pressi recita ancor oggi testualmente: «Le analisi approfondite sulle murature, condotte da Cesare Miceli nel 1990, fanno ritenere che la struttura non può essere messa in relazione all’epoca di fondazione della città (metà del XIII sec., circa, n.d.a.), ma si tratta in realtà di un manufatto di epoca romana, come si evince sopratutto dall’interessante analogia con la muratura dell’anfiteatro di Amiternum. Una delle ultime interpretazioni è che si tratti di un reperto di un mausoleo ascrivibile al I sec. Dopo Cristo». Il mistero di questo straordinario reperto archeologico non finisce qui: si è anche ipotizzata una sua attinenza, come pilastro d’acquedotto, con la medioevale sistemazione idraulica della città.

A fronte di un così aulico passato, come lo si è protetto dopo il terremoto? Questa l’avvilente risposta: il Torrione non è stato delimitato nemmeno con un nastro adesivo bicolore per segnalare sia la pericolosità di ulteriori crolli (ad occhio e croce sono stati distrutti tre metri in altezza), sia la preziosità di quei mattoni e pietre ammucchiati ora sulla sua base.

Lo splendido risultato?: quei “calcinacci” (per gli zoticoni, s’intende!) rovinati in basso stanno diminuendo di giorno in giorno, com’è possibile constatare nelle due fotografie da me scattate recentemente il 3 ed il 16 giugno.

Il Ministro dei Beni Culturali, fattosi bellamente fotografare vicino alla Madonna con Bambino in terracotta recuperata dalla Basilica di Collemaggio con uno spettacolare salvataggio dei pompieri, cosa sta predisponendo per evitare analoghi scempi? E il Comandante Supremo delle tendopoli militarizzate (braccialetti al polso, niente caffè, coca-cola e vino, nessuna possibilità di assemblea, divieto assoluto di distribuire volantini ed altre angherie antidemocratiche) ha disponibile qualche euro in più per far comprare finalmente il nastro adesivo?

Sulla base di queste incredibili premesse le vetuste macerie aquilane stanno correndo un serio pericolo di predazione da parte di passanti feticisti o di mercanti d’antiquariato senza scrupoli (portali, bifore, stemmi gentilizi, frammenti di affreschi, cassettoni lignei, epigrafi, ecc. sono lì all’aperto, confusamente frammischiati, ed a portata di mano).

La morale della favola? L’immondizia continua a puzzare (Palermo e dintorni) checché ne dicano o scrivano i media addomesticati dalla falsificante “Voce del padrone”; le pietre ed i mattoni della nobilissima città dell’Aquila a profumare d’antico: nonostante la catastrofe.

Antonio Gasbarrini

Critico d’arte – Art Director del Centro Documentazione Artepoesia Contemporanea Angelus Novus, fondato nel 1988 (L’Aquila, Via Sassa 15, ZONA ROSSA). Attualmente “naufrago” sulla costa teramana.

antonio.gasbarrini@gmail.com

Foto di Fabio Sciarra


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