Maria Paola Orlandini: "L'arte serve alla vita"

06 Dicembre 2011   12:09  

Ci sono molti modi di declinare questa frase: come un invito, una sollecitazione: “Viviamo d‘arte!” pronunciata da anime belle, un po’ futuriste e un po’ demode’; una constatazione: “Viviamo d’arte…” in bocca a quegli artisti un po’ squattrinati che a piazza Navona si guadagnano la giornata disegnando ritratti ai turisti; “Viviamo d’arte!?” interrogativo che nella mente di tanti soloni nostrani, ignari del potenziale economico della cultura, equivale a “viviamo d’aria”, traduzione della storica frase che ha segnato l’epoca tremontiana: con l’arte non si mangia.

E allora a che serve l’arte? Allo spirito? Troppo poco, in un’epoca materialista; alla scuola? ma se stiamo tagliando le ore di storia dell’arte!; ai critici ed esperti? una cerchia ristretta, che si parla addosso; alla politica? ma la politica si occupa di cose serie: lavoro, trasporti, ospedali. Avanziamo un’ipotesi: l’arte serve alla vita.

E per non essere troppo generica e superficiale proverò a dire come serve alla mia di vita. Partiamo dal lavoro, da Rai Educational, dove ho iniziato ad occuparmi di comunicazione dell’arte nel 2000 con il progetto “Idea”, in collaborazione con il MIBAC, per il quale abbiamo prodotto documentari nei musei italiani: un’esperienza molto complessa e ardua che incontrava la resistenza di quasi tutti i direttori dei musei, poco inclini, al contrario dei loro colleghi stranieri, a favorire una produzione filmica sui tesori del loro museo, in parte perché li vivono come proprietà personale più che collettiva (un altro modo? troppo egoistico però, di vivere l’arte); in parte perché l’ingresso di una troupe nelle sale di un museo comporta estenuanti trattative con sindacati, ministero, e i direttori non ne possono più di occuparsi tutto il tempo di burocrazia, vittime di una mentalità, radicatasi nei vertici ministeriali, che ha voluto trasformare austeri studiosi in manager.

Quell’esperienza però ha avuto per me un valore formativo essenziale e, in più, è stata fonte di quel piacere assoluto che l’arte concede solo a pochi privilegiati: immaginate Galleria Borghese, di notte, chiusa a tutti e aperta solo per noi, che giravamo un documentario con il soprintendente Claudio Strinati: Paolina era illuminata dalla luce delle candele e nelle stanze accanto, ci aspettavano Tiziano, Raffaello, Cranach… Il piacere abitava in quei corridoi, si sussurrava invece di gridare, ed appariva chiaro, in quelle tiepide notti di luglio, che l’arte ha una stretta parentela con il sacro.

A Rai Educational quel lavoro ha dato i suoi frutti e si è trasformato in una vera e propria struttura che produce un magazine d’arte: Art News, in onda dal 2006 su Rai Tre, e Magazzini Einstein che, dal 2002, occupa uno spazio da nessun altro ricoperto in Rai, quello della documentaristica d’arte, settore che potrebbe essere, questo si, nel nostro paese, fonte di reddito per tanti giovani. Abbiamo il patrimonio artistico più grande del mondo? Allora facciamolo conoscere! Lo sanno bene i giapponesi, gli inglesi, i francesi, che vengono da noi per girare quei documentari che noi italiani non produciamo e non mandiamo in onda nelle televisioni, convinti come siamo che il pubblico sia composto, per la sua gran parte, da adulti dementi e giovani delinquenti, interessati solo alla vista del sangue e del sesso.

In Norvegia è andato in onda in prima serata un documentario “L’arte incontra l’estremo Nord” che noi abbiamo trasmesso d’inverno, all’una e mezzo di notte, e d’estate, la mattina alle sette su rai tre; non è un caso, poi, se al recente Prix Italia il nostro paese non riesce ad aggiudicarsi neppure un premio,mentre i paesi del Nord Europa ne fanno incetta: è l’abitudine all’ascolto che seleziona e forma un pubblico, non la rincorsa ai suoi gusti più ovvii.

E nel privato, nel mio privato, a cosa serve l’arte? Al mio respiro, ad alimentare la mia riserva d’aria quotidiana, a guardare lontano, a ricordare il talento degli artisti, la sapienza dei letterati, le profezie dei registi, il coraggio degli attori, la disciplina dei danzatori. Quando ci si sente soli e diversi, l’arte ti consola; e ti sprona, ti stimola a non mollare.

Paolo Orsi, chi era costui? Un archeologo di Rovereto che, a fine ottocento, quando nell’Italia del sud c’erano i briganti e la malaria, si trasferisce in Sicilia e, in condizioni di grande disagio, con coraggio e tenacia, scava alla ricerca delle origini dei popoli siculi e dedica la vita, un altro esempio di cosa sia vivere l’arte, alla ricerca di quei reperti che costituiscono il patrimonio del museo archeologico di Reggio Calabria, e di quello di Siracusa, a lui dedicato. Se Orsi fosse stato americano avremmo visto tutti al cinema le sue avventure, magari sotto le spoglie di un antico Indian Jones. In Italia lo conoscono gli esperti, a scuola non se ne parla, in televisione, figuriamoci! Vivere d’arte, per me, è anche onorare Paolo Orsi, ricordarlo ai giovani, non smettere di conservarne memoria, sperare che un giorno qualcuno voglia raccontare le sue gesta.


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