Paolo Rumiz con ''L'Italia Sottosopra'' è arrivato in Abruzzo

I miracoli di Sant'Emidio

26 Agosto 2009   11:29  

Giusto perché non si dica che siamo in viaggio solo per menar gramo, è opportuno che spenda un pezzo di strada per dare la più utile delle istruzioni antisismiche in quest'Italia del cemento selvaggio. Scegliere a che santo votarsi. Pregare: poco altro rimane a chi ha perso la fede nello Stato, a chi sa di vivere in un Paese dove l'emergenza è la regola e i furbi non pagano mai. Eccoci dunque ad Ascoli, sospesa fra l'Adriatico e le gole ballerine dei Sibillini. Eccoci in cerca del suo aureolato patrono Emidio, un santo che funziona meglio del calcestruzzo, adottato da mezza Italia, concupito dalle più sfortunate Norcia, Aquila e Amatrice, invidiato dai comuni sulle faglie più pericolose.

Scampanìo, porchette fumanti, profumo di anisetta: così Ascoli marchigiana, rovente e di bianchissime chiese, ci aspetta in piazza con Viviana Castelli, studiosa di devozioni e liturgie antisismiche nella storia d'Italia, che ci accompagnerà dentro i misteri e i miracoli del santo più efficiente e specializzato della Penisola. Più di Santa Barbara dei pompieri o San Giuseppe dei falegnami. Emidio, il santo contro i terremoti. Per quindici secoli la sua mummia, abbigliata di misteriosi tessuti copti e persiani, aveva dormicchiato senza infamia e senza lode in una cripta nella città appenninica, dimenticata dal Vaticano e dal grande libro del messale universale, dove sono enumerati i santi più autorevoli da invocare. Poi venne il terremotone del gennaio 1703, quattro scosse che bastonarono Umbria e Abruzzo. La botta più tremenda dell'era moderna nell'Italia Centrale. Venne, e per Ascoli tutto cambiò. Mentre Norcia, l'Aquila, Amatrice e Campotosto crollavano con migliaia di morti, la città marchigiana si limitò a ballare. Ma non basta. Pare che gli ascolani in trasferta nelle aree colpite dal sisma si salvassero o fossero estratti vivi dalle macerie; e pare che persino i non marchigiani, che nel disastro avevano invocato quel santo, fossero riusciti a portare a casa la pelle. Fu come per Padre Pio. Notorietà fulminea. La gente accorse dalla costa e dalle gole appenniniche per pregare sulla tomba del santo. Delegazioni di terremotati chiesero udienza per cambiare il loro patrono o affiancarlo a quello ascolano. Da un giorno all'altro migliaia di Emidi furono registrati nei libri parrocchiali delle nascite. Insomma, in un attimo la città bianca era uscita dalla sua marginalità e la dimenticata via Salaria tornava centrale. Nel 1774 il nostro era già sbarcato in America, con la prima spedizione spagnola in California. Dopo uno sconquasso potente (il luogo fu chiamato "Bahia dos Tremblores") uno degli esploratori consigliò di invocare il santo che così bene aveva funzionato 70 anni prima sull'Appennino. Gli spagnoli pregarono, il sisma s'interruppe, la notizia corse, e persino gli Indios finirono col genuflettersi all'icona del mago d'Oltremare.

Solo la Chiesa di Roma resisteva alla richiesta ascolana di inserire quel santo sconosciuto tra i grandi del messale. Ma ci pensarono altri terremoti a convincerla, quello del 1756 e soprattutto quello catastrofico delle Calabrie del 1783. Con chi lo invocava, Emidio esorcista funzionava sempre. Così il Vaticano si arrese e a quel punto la fama dilagò. Portato da missionari cattolici, il nostro volò a insediarsi lungo le faglie più pericolose del mondo. Filippine, Grande Rift africano, Montagne Rocciose.

La Castelli mi accompagna in mezzo a chiese-fortezze d'un romanico di tale potenza che mi assale un dubbio: più che Emidio qui forse ha funzionato la buona architettura. È l'ora del caffè sotto un porticato, si riflette che bene o male la chiesa è l'ultimo presidio della memoria sismica in un Paese scellerato. Emidio anche a questo serve. Così le preghiere a San Filippo Neri, altro specialista in terremoti, nel Sud. A San Quirico presso Fabriano e a Vèroli in provincia di Frosinone le campane suonano ancora a ricordo di disastri vecchi di secoli. "Tocchiamo ferro" ci dicono due del posto quando sentono di cosa parliamo. "Non ci resta che Sant'Emidio". Già. Ecco la domanda ultima. Come mai ci restano solo i santi? Chi ha affossato la politica di prevenzione? Chi ha voluto che il 65 per cento dell'arte mondiale - tanta ne esiste nel Paese - fosse lasciato in balìa degli elementi? C'è una data fondamentale per capire: il 1980, terremoto dell'Irpinia. Una giorno preciso, il 10 dicembre; quando Franco Bàrberi e Peppino Grandori, geologi del Cnr, tengono una sconvolgente relazione al Senato, davanti al presidente della Repubblica Pertini. Ho con me quel documento. Lo rileggo prima di affrontare la via Salaria verso Norcia. Bàrberi e Grandori dicono: signori, difendersi dai terremoti o intervenire dopo costa più o meno uguale. La differenza sta nel numero delle vittime. Il costo sociale delle mancata prevenzione è immenso, non considerarlo è un crimine. Ora è tempo di riparare al danno. Così parte l'idea di un mega-piano di messa in sicurezza dell'Italia: il Progetto finalizzato geodinamica.

Non c'è scienziato che non parli con nostalgia di quegli anni. Si mobilitano risorse, scendono in campo geologi, ingegneri, storici. Cadono steccati, baronìe. L'interazione di cervelli dà frutto, il patrimonio edilizio del Paese comincia a essere monitorato. La protezione civile si mette agli ordini della scienza. L'Italia diventa avanguardia, compie un balzo di vent'anni. Il seguito lo sappiamo. La politica si mette di mezzo. Prevenire non paga, meglio i favori ai costruttori, meglio la politica-spettacolo dell'intervento a sismi avvenuti, meglio l'amnesia di Stato sui disastri passati. L'idea di calare l'antisismica nell'edilizia e nelle assicurazioni viene affossata prima di nascere. Intanto si consuma una lotta per la supremazia fra il Cnr e l'astro nascente della geofisica italiana, l'Ingv. Il risultato è lo scacco della scienza, che diventa gregaria della Protezione civile e rifluisce in nicchie accademiche. È il trionfo della monocultura emergenziale militarizzata, fatta di pieni poteri centrali e comunità esautorate. Il modello dell'Aquila. L'ostentazione mediatica delle macerie. I campi con i reticolati. La fine dei territori.

 

fonte: www.repubblica.it


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