Pensare la ricostruzione: lo sviluppo locale a base culturale

Di Pier Luigi Sacco - parte terza

25 Settembre 2010   10:44  

Pubblichiamo la terza parte del saggio del professor Pier Luigi Sacco dedicato alla ricostruzione aquilana.

Pier Luigi Sacco è professore ordinario di Economia della Cultura presso l'Università IUAV di Venezia, dove è anche direttore del Dipartimento delle Arti e del Disegno Industriale (DADI) e pro-rettore alla comunicazione e alle attività editoriali. Insegna anche presso l'Università "G. d'Annunzio" di Chieti-Pescara e ha insegnato nelle Università Bocconi di Milano, Firenze, Bologna, e presso la Johns Hopkins University, Bologna Center. E' direttore scientifico della Fund Raising School e coordinatore dell'area Economia della Cultura del Master in Arts and Culture Management della Trento School of Management. E' responsabile scientifico di goodwill, Bologna. Collabora alle edizioni giornaliere e al supplemento domenicale de "Il Sole 24 Ore" ed è membro del comitato scientifico o editoriale delle riviste "Etica ed Economia", "Mind and Society", "Economia della Cultura", "La nuova informazione bibliografica". E' l'autore dell'aggiornamento del lemma "Economia" per l'"Enciclopedia del Novecento" e del lemma "Economia della cultura" per l'opera "XXI Secolo" edite dall'Istituto dell'Enciclopedia Italiana.

3/  Lo sviluppo locale a base culturale
di Pier Lugi Sacco

'' Ci sono paesi dell'Abruzzo interno che, pur essendo meta di turismo stagionale, sono praticamente uguali a sé stessi da quarant'anni a questa parte (almeno). Si potrebbe pensare che ciò costituisca un fattore di autenticità e di qualità, un'attenzione alla conservazione di un'antica saggezza del vivere.
Niente di più lontano dalla realtà: questi paesi sono uguali a sé stessi perché non hanno mai investito su di sé, limitandosi a riproporre l'esistente in quanto opzione più semplice e apparentemente priva di rischi.

E di conseguenza, ciò che è gradualmente accaduto nel tempo è che essi hanno assistito ad un progressivo scadimento della propria capacità attrattiva, finendo per essere colonizzati da un turismo di poche pretese e bassa capacità di spesa, e per essere caratterizzati da una vita sociale e culturale ripetitiva e deprimente.

Altri paesi, al contrario, hanno provato a percorrere nuove strade, lavorando su strategie intelligenti di recupero conservativo, incoraggiando la micro-imprenditoria locale legata alla qualità del territorio (dall'artigianato all'agro-alimentare), soprattutto quella giovanile che, se dispersa, segna il tramonto definitivo della comunità locale e la sua estinzione in tempi brevi, favorendo la vivacizzazione degli spazi dei centri storici con nuovi esercizi commerciali, botteghe di qualità, spazi di animazione culturale. Ed è proprio questo atteggiamento di apertura al cambiamento che ha permesso a questi paesi di
recuperare il senso più vero e più profondo della propria identità locale, elaborando gli strumenti più adatti per riscoprirla, trasmetterla, e anche quando possibile reinventarla con parole, gesti e idee nuove.

L'apertura al cambiamento - praticata con intelligenza e sulla base di una reale conoscenza della propria storia, abbinata alla curiosità per le idee e le esperienze disponibili sull'arena sempre più globale dell'evoluzione culturale - è la strada più sicura per dare un futuro ad un territorio senza dimenticarne le radici profonde. ma questo è soltanto il primo passo per dare vita, nel contesto
attuale, ad un progetto di sviluppo locale socialmente ed economicamente sostenibile.

Il secondo passo, molto più difficile e selettivo (per quanto già il primo sembri oggi in molti casi, a torto, un obiettivo quasi irraggiungibile) ha a che fare con la capacità, da parte del territorio, di generare con efficacia e continuità tre grandi classi di risorse intangibili: le conoscenze, la socialità e l'identità - ovvero, i tre pilastri delle economie post-industriali. Esaminiamo questo punto con più attenzione.

Generare conoscenza non significa soltanto lavorare sui canali formativi tradizionali - quelli legati ad istituzioni educative formali quali la scuola dell'obbligo, la scuola superiore o l'università, ma anche costruire sapere e saper fare attorno alle eccellenze attuali o potenziali del territorio. Ad esempio, sperimentare nuove pratiche, nuovi materiali, nuovi concetti di design per riattualizzare una tradizione produttiva locale di eccellenza vuol dire in primo luogo generare conoscenza, far ripartire la capacità di creare valore economico attraverso l'innovazione.

Ma se queste pratiche e i rispettivi profili professionali ed esse connessi non vengono ritenute accettabili e attraenti dai giovani del luogo (o da altri che potrebbero scegliere quel luogo come loro residenza elettiva), anche opportunità produttive economicamente sensate potrebbero finire per essere socialmente non sostenibili.

E' questo l'errore che si commette quando si vogliono incoraggiare i giovani a sviluppare percorsi professionali all'interno di ambiti di produzione artigianale ricchi di storia ma caratterizzati da una patina oleografica che li rende inaccettabili in quanto associa a chi li pratica una identità sociale obsoleta e controproducente nelle proprie relazioni sociali extra-lavorative.

Colpevolizzare i giovani perché non vogliono tenere vivi i mestieri dei propri antenati non è soltanto ridicolo, è ingiusto. Ciò che occorre fare è creare le condizioni perché queste operazioni preziose di salvaguardia di saperi e di abilità si leghino alla produzione di contenuti e di prodotti innovativi, che rispondono ad aspirazioni e bisogni nei quali chi vive oggi si sappia e si voglia riconoscere.

Occorre cioè che alla produzione fisica si accompagni non soltanto una produzione di conoscenza, ma anche una produzione di socialità (che renda queste culture produttive socialmente spendibili in quanto affascinanti e capaci di mettere in gioco in modo motivante i talenti delle persone) e di identità (che renda le persone che praticano questi mestieri orgogliosi di riconoscersi
in essi in quanto portatori di un prestigio sociale riconosciuto).

E' quindi inutile chiedere alle ragazze di un paese di imparare a fare il tombolo come lo facevano le loro nonne o bisnonne, sotto il ricatto che quella tradizione altrimenti andrà persa. Ciò che si dovrebbe fare è sottoporre la tradizione ad uno shock culturale che ne rivitalizzi il senso: ad esempio, invitare un operatore
culturale riconosciuto (un artista, un designer, ma anche un artigiano di livello internazionale) a conoscere e vivere il luogo e a lavorare con le energie locali per ripensare quella tradizione e i suoi prodotti in modo intelligente, salvaguardandone l'integrità sottraendoli al deprimente ruolo di reliquia del passato e facendone rivivere l'estetica, la sapienza realizzativi, la qualità ideativa.

Nello scenario competitivo di oggi ci si concentra invece, in modo miope e ostinato, su un fare privo appunto di capacità ideativa. Se un territorio non sviluppa oggi una capacità di pensare la qualità, di saperla leggere confrontandosi continuamente con gli altri luoghi capaci di produrla, di
saperla far evolvere attirando continuamente dall'esterno energie e idee fresche, esso semplicemente smette di vivere, finisce per ripetere stancamente per un po' dei rituali economici e sociali ormai consunti e poi gradualmente si trasforma in un deserto fisico e sociale prima ancora che economico.

Questo è il vero rischio che corrono oggi tanti territori, e sicuramente è il rischio
che corrono tante comunità locali abruzzesi che hanno da tempi più o meno lunghi perso il contatto con la frontiera della produzione di valore economico e sociale.

Per recuperare questa capacità di creare valore, la leva davvero fondamentale si sta rivelando quella di natura culturale. Non quella della valorizzazione culturale fine a sé stessa, che sta purtroppo ritornando in auge oggi nel nostro paese e che al contrario produce tipicamente quelle forme di marketing territoriale dell'ovvio di cui si parlava sopra.

E nemmeno quella dell'animazione culturale fine a sé stessa: non è facendo qualche mostra di pittura di artisti locali o meno locali e qualche concerto o rappresentazione teatrale in piazza che si possono cambiare le cose. Ciò che
realmente occorre è la capacità di produrre idee culturali che si sappiano tradurre in valore innovativo: idee che, certo, devono alimentarsi di un ambiente culturale locale vivace e aperto e devono potersi rispecchiare in una comunità che creda che il domani non è semplicemente il prolungamento dell'oggi ma il frutto di ricerche e sperimentazioni fondate su una cultura collettiva del rischio, su una capacità di riaffermare l'identità della comunità sapendola adattare al continuo mutare delle condizioni esterne.

In questi anni l'economia di molte piccole comunità dell'Abruzzo interno è stata rafforzata dall'afflusso di tanti immigrati, spesso extra-comunitari, che vengono a fare i lavori più umili o a lavorare negli esercizi commerciali e ricettivi durante le stagioni di flusso turistico. Si tratta di un apporto prezioso ma non sufficiente ad innescare una reale dinamica di apertura al cambiamento.
Perché questi territori così ricchi di qualità ambientale e caratterizzati da un costo della vita relativamente modesto e da una cultura dell'accoglienza ancora solida non potrebbero attrarre anche persone caratterizzate da elevati livelli di capitale umano, in cerca di territori che diano loro la possibilità di sperimentare e innovare? E' ormai diventato famoso, ad esempio, il caso di Daniele
Kihlgren, un quarantenne svedese appartenente ad una famosa dinastia imprenditoriale che, partendo dal borgo ormai abbandonato di Santo Stefano di Sessanio - in cui ha pazientemente acquistato e restaurato una quantità di case in rovina (con criteri antisismici che le hanno fatte uscire indenni dalle distruzioni del terremoto che invece ha fatto crollare la bella torre del paese) e creato
un modello innovativo ed efficace di albergo diffuso - ha ormai messo in piedi una vera e propria rete di operazioni di recupero che interessano vari piccole frazioni di paesi abruzzesi.

Il modello è stato esteso al recupero di alcune grotte dei Sassi di Matera ed esiste ormai una vera e propria lista di attesa di piccoli centri che chiedono a Kihlgren di intervenire sul proprio patrimonio edilizio disabitato e di ridargli vita. In una recente intervista (La Repubblica, 6 agosto 2009), Kihlgren ha
dichiarato: "...E' un patrimonio che grida vendetta, ce l'avete messa tutta per massacrarlo... Quest'integrazione perfetta fra case storiche e paesaggio, questi borghi costruiti sulla sommità delle colline nell'epoca dei castelli, questo senso straordinario di equilibrio e armonia...ecco il vero patrimonio italiano tanto seduttivo quanto sistematicamente compromesso".

Nei paesi recuperati da Kihlgren tornano gli abitanti, aprono nuove attività commerciali. Ma una condizione imprescindibile posta per intervenire è quella di una regolamentazione urbanistica stringente che impedisca interventi edificatori incongrui che sfruttino speculativamente e senza intelligenza l'azione di recupero, compromettendo proprio quella qualità urbana che ha ridato valore al centro abitato.

Kihlgren si è mosso di propria iniziativa, e all'inizio nell'incomprensione delle comunità locali. Cosa si potrebbe ottenere se interventi come questi, nati da idee e capitale privato, fossero integrati in una politica di sviluppo locale evoluta e innovativa? Cosa si potrebbe ottenere se invece di aspettare che il prossimo Kihlgren abbia la ventura di scoprire l'Abruzzo e volergli dedicare le
proprie risorse e le proprie energie si dia vita ad un'azione di ricerca e di attrazione dei tanti Kihlgren che esistono in giro per il mondo, che operano nei campi e negli ambiti di competenze più vari e che potrebbero dare un contributo decisivo al ripensamento e alla rinascita di tante comunità locali?

Ricostruire l'Abruzzo, cogliere l'occasione creata dal terremoto - con tanta sofferenza ma anche con un possibile, ritrovato orgoglio: tutti in questi mesi stanno riconoscendo lo spirito di sacrificio e l'abnegazione delle popolazioni colpite - significa in primo luogo ricostruire la capacità di costruire
qualità e valore.

La ricostruzione fisica è solo una tappa strumentale affinché questo possa accadere. La ricostruzione reale richiede di operare con efficacia su un piano diverso: il piano della produzione del senso, delle idee, di un futuro in cui credere e in cui riconoscersi.

 


Oroscopo del Giorno powered by oroscopoore