Salvatore Settis: "Gli Aquilani cambino mentalità o L'Aquila sarà dimenticata"

24 Maggio 2012   14:57  

Salvatore Settis, docente emerito presso la Scuola Normale Superiore di Pisa ed eminente figura del panorama culturale nazionale ed internazionale, ha visitato L'Aquila ed il suo centro storico in occasione del convegno Paesaggio Costituzione Cemento.

Intervistato da Germana Galli, per la rivista culturale Mu6, ha detto la sua sul terremoto aquilano e sulla difficile ricostruzione.

-In questi giorni ha avuto modo di visitare la città e le new towns. crede che L’Aquila sia metafora della situazione del degrado paesaggistico dell’intero paese?

L’abbandono del centro storico dell’Aquila al suo destino è uno scandalo nazionale, e non solo nazionale. Il fatto che un tessuto urbano tanto ricco e prezioso sia sostanzialmente ancora nello stato in cui era all’indomani del terremoto è raccapricciante. Quando diciamo che questo abbandono è metafora di quanto accade in tutta Italia, qualcuno può pensare che stiamo esagerando, che l’emergenza e il degrado dell’Aquila sono dovuti a un evento straordinario come il terremoto. Ma un Paese dal territorio fragilissimo, franoso e a rischio sismico dovrebbe prima di tutto lavorare di più nella prevenzione e messa in sicurezza; dovrebbe, anche, reagire prontamente e con criteri chiari agli eventi distruttivi. Nulla di tutto questo: la cifra del degrado di cui l’Aquila è il simbolo la danno le sinistre risate di un imprenditore edile, che nella notte stessa del terremoto individuò nelle disgrazie altrui un’opportunità di profitto per se stesso. Lo sciagurato sapeva già, con l’intuito sicuro dei predoni,che un sano progetto di ricostruzione non ci sarebbe stato. Ma è con decisioni a livello nazionale che si sarebbe dovuto porre rimedio, e invece abbiamo visto montare intorno al terremoto quasi solo ciniche operazioni propagandistiche.

-Le responsabilità di questo degrado sono ascrivibili al legislatore, agli enti locali o all’assenza di controllo al controllore?

Credo che siano responsabilità condivise, ma l’incapacità di creare una regia unica e soprattutto competente è certamente un fattore primario del degrado. C’è tuttavia da chiedersi se la frammentazione delle iniziative e delle istanze, l’assenza di una visione generale, la rinunzia a ogni progetto coerente non siano anche ispirate, sotterraneamente, dalla diffusa tendenza ad approfittare sempre di tutto, quando siano disponibili fondi pubblici, perché i soliti furbi possano tirare l’acqua al proprio mulino.

-La cementificazione comporta anche danni collaterali, tra i più evidenti il vulnus al paesaggio provocato dalle attività estrattive. Le sembra adeguata l’attuale normativa che regola questa attività?

Il problema non sono solo le norme, ma anche la rinuncia a farle osservare. Le cave, per esempio, sono una necessaria attività estrattiva, che però dev’essere limitata nel tempo, e quando una cava viene chiusa dovrebbe essere “ripasciuta”, sanando la ferita inferta al paesaggio. Ma questo non viene fatto quasi mai, e chi dovrebbe intervenire e costringere le imprese a seguire questa norma elementare spesso non si muove. In Campania, anzi, alcune cave sono state riempite con orrendi ammassi di rifiuti anche tossici. Così un danno si agiunge all’altro, e il degrado cresce.

-Con la fine delle gestioni commissariali all’Aquila, le Soprintendenze svolgeranno una funzione centrale nella ricostruzione dei beni culturali. Crede che gli uffici territoriali, a fronte di un così imponente lavoro, abbiano le “forze” necessarie?

Non ho tutti gli elementi per rispondere. Posso solo dire che non è solo questione di contare i numeri delle persone disponibili. Se, come pare, ci sono circa 300 unità, per sapere se bastano occorrerebbe avere altri tre elementi di giudizio: primo, come sono stati selezionati, e se le competenze e la motivazione di ciascuno di loro sono all’altezza del problema; secondo, se esiste un piano ben fatto di intervento; terzo, se è stata creata una struttura organizzativa e amministrativa in grado di gestire la situazione con altissima professionalità e piena efficacia.

-In occasione della visita del premier Mario Monti a L’Aquila si è discusso del futuro della città ed è stato illustrato il progetto “Abruzzo verso il 2030: sulle ali dell’Aquila” proposto dall’OCSE e dall’Università di Groningen. Cosa ne pensa?

Come ho scritto su Repubblica del 7 aprile, mi pare un pessimo segno lo slogan assai frivolo “trasformare l’Aquila in una smart city”. Il progetto contiene affermazioni generiche e retoriche, come l’idea di fare della città «un prototipo, un laboratorio vivente, uno studio di caso, che sfrutti nuove tecnologie per migliorare la qualità della vita». Cito da quel mio articolo: «La ricostruzione? Può aspettare, anzi secondo il progetto sarebbe sbagliata «l’intenzione di ricostruire prima e poi trovare i mezzi per progredire». Bisogna, anzi, «spostare il centro dell’attenzione dalla ricostruzione fisica allo sviluppo economico e sociale». L’Aquila dev’essere «adatta a nuovi modelli di business», candidarsi a capitale europea della cultura, e non toccare una pietra senza prima aver lanciato un concorso fra «architetti di fama mondiale», che intervengano sugli edifici cambiandone la destinazione d’uso per farne «luoghi moderni concepiti in maniera creativa, modificando gli interni e conservando le facciate storiche degli edifici». Insomma, «celebrare il passato» lasciando in piedi le facciate, costruire il futuro sventrandone gli interni. E poi, tanta tecnologia: energia pulita, Internet per tutti, città cablata. Non una parola sul riscatto dei cittadini dall’esilio nelle squallide newtowns: per sentirsi intelligenti, smart, all’avanguardia, per volare «sulle ali dell’Aquila» (altro slogan del progetto) meglio rimandare la ricostruzione, puntare su concorsi di architetti e realtà virtuale. Gli aquilani sono invitati a «cambiare modo di pensare», se no «L’Aquila diventerà una collettività frammentata, una città isolata e dimenticata»: ottima descrizione, vien da dire, di quel che oggi essa è.». Insomma, mi pare un pessimo progetto, velleitario e parolaio.

-Pensando alle sue esperienze lavorative nel mondo della cultura non solo di docente alla Normale di Pisa ma anche ai prestigiosi incarichi all’estero come al Getty Center di Los Angeles, come si potrebbero aiutare i musei, i teatri, i siti archeologici, le biblioteche, a raggiungere una maggior autonomia dallo Statoitaliano?

Non penso affatto che i musei debbano essere autonomi dallo Stato, penso che debbano esserlo nello Stato, e nelle altre amministrazioni pubbliche. Occorrerebbe in tal senso una profonda riforma, le cui linee essenziali sono a mio avviso chiarissime. Ma la mancanza di indirizzo al Ministero dei Beni Culturali, e la marginalizzazione di questi temi anche nell’agenda del governo Monti, non fanno sperare bene in tempi brevi.


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