Sisma. ''Nessuno è risorto''

La testimonianza di Tonio Di Carlo

14 Aprile 2009   18:34  

Oggi salgo di quota, imbocco la ss153 fino al bivio di Navelli. Il traffico è da guerra.
Piego per Caporciano: centro storico evacuato.
Salgo a Bominaco angosciato. A guardar da fuori, tutto in piedi, due cartelli però così recitano: chiesa inagibile. Santa Maria e L’Oratorio di San Pellegrino. Gioielli del Romanico abruzzese.
Dormono in tenda anche a Bominaco. Sono sgomenti e infreddoliti. Mi fermo con i residenti, poche parole composte.
Non scendo per la valle Subequana e mi dirigo sulla ss17 fino al quadrivio di Castelnuovo-Castelvecchio Calvisio.
A Castelnuovo, La Cabina di Eugenio è sempre stata per tutti tappa fissa per il bicchiere della staffa, crocevia di incontri per soste tra L’Aquila e Pescara: da studenti, da militari, da viaggiatori…
Entro nel Parco del Gran Sasso da Piano Buio, ho il privilegio di percorrere strade sconosciute ai più. Siamo soli, io e il Parco. Castelvecchio Calvisio , borgo medievale, belvedere sulla Valle del Tirino: inagibile. Mi fermo, affiorano i ricordi, profumo di asparagi e mandorli in fiore.

A Calascio sono tutti sfollati, accampati stretti stretti ai piedi del paese, nell’unica porzione pianeggiante tra l’asfalto della strada e la roccia. Vietato l’accesso anche alla Rocca di Calascio, ci sono parecchi danni.
Fa così freddo da lacrimare gli occhi a Santo Stefano di Sessanio e sono solo le quattro del pomeriggio. Da lontano vedi subito che non è più Santo Stefano: manca la Torre Medicea. Anche qui tutti sfollati e tutti nelle tende ma di pianura ce n’è di più.

“Tu sei abruzzese, puoi capire. M'infastidisce l’avere bisogno, dipendere da qualcosa o da qualcuno.
Ma non lo dico per orgoglio, tu lo sai, sei del Tirino…
Noi qui siamo abituati a non chiedere, a fare da soli, perché vivere a Santo Stefano di Sessanio è dura... Anche se siamo a un tiro di schioppo da un paese all'altro, in inverno i collegamenti sono difficili. Si rimane anche isolati dalla neve. Ognuno di noi è poi pendolare alla nascita, all’anagrafe.
In TV dicono che è crollata la Torre, sono preoccupati solo della Torre, ma non dicono che è crollata proprio la parte di Torre restaurata con il cemento. Come fanno a dire che non c’è altro? Con una sorvolata di elicottero? Qui ancora non viene nessuno a fare perizie e non possiamo tornare nelle nostre case.
Fa freddo e fa ancora inverno. Dormire con la temperatura sotto zero nelle tende è terribile per tutti.”

E’ vero, si battono i denti a Santo Stefano e le nuvole che valicano non promettono nulla di buono. Continuo a salire di quota. Nonostante il freddo non resisto alla tentazione di Campo Imperatore.
C’è ancora molta neve ma la strada è praticabile. Scorgo Santo Stefano dall’alto, La chiesa di Santa Maria del Lago dove hai abbeverato il cavallo dopo un galoppo mozzafiato , La Grancia di Santa Maria del Monte, la via della Transumanza.
Un cielo plumbeo mano mano si abbassa, incute timore, quasi un avvertimento al valico. Proseguo spedito nei luoghi da "nessun servizio": irraggiungibile.

Non curante del pericolo delle perturbazioni leste che qui, che nel giro di cinque minuti ti oscurano e ti smarriscono.
Temerario, voglio dire una preghiera al Gran Sasso, genuflesso tra le genzianelle appena fiorite e i nevai di Campo Imperatore.
In solitudine, sospeso tra la terra e il cielo.
Castel Del Monte segna il ritorno con le luci del tramonto. Ha il profilo mutato, te ne accorgi a distanza. Tutto il borgo è vietato e inagibile fino a verifica. Una tendopoli anche qui e gente che si appresta alla notte come può. Anche a Villa Santa Lucia ci sono crolli e la via per Carrufo è interdetta. Al bivio di Forca scendo giù per Molinara guadagnando velocemente Capo D’Acqua.
Sono ancora frastornato dalla pressione con gli orecchi che fanno una gran confusione. E’ sabato santo, comunque festa, la Pasqua con gli ineludibili riti paesani fatti da drink and chic.

Il Terremoto è già un ricordo o forse, non è mai stato un problema.
Mi rincorrono i moniti del “che sei tornato a fare”, “chi te lo fa fare”, “stattene al sicuro”.
In fretta mi congedo, non ho voglia di ascoltarli, di vederli tutti impacchettati, infiocchettati e tirati a lucido come le più belle uova pasquali da esporre in una improbabile vetrina, come se nulla fosse accaduto.

Non rispondo ma rifletto e mi sento Abruzzese, forse più di loro. Per questo sono tornato.
A casa dei miei la psicosi collettiva si misura a kilogrammi: se non accompagni una porta e la lasci sbattere sono scatti e urla di terrore. Se fai vibrare il tavolo più del dovuto ci si drizza fulminei, pronti per scappare.
Per la seconda notte resto da solo in casa a dormire, qualcuno dovrà pur ricominciare una vita normale: come arriva il crepuscolo fuggono tutti dalle case per non trovare la morte nel sonno.
Mia sorella e mio cognato con Luca dormono in macchina, mia madre e mio padre al dormitorio allestito dalla protezione civile alle scuole elementari e medie, mio figlio in tenda con la madre.
Ecco, sono solo a casa, mentre fuori tutti brindano e si scambiano gli auguri.
Sento quasi gli schiamazzi del bar echeggiare fino qui.
Mi dissocio: non brindo, non festeggio e non faccio gli auguri a nessuno, perché nessuno è risorto.

Tonio Di Carlo

(Immagine tratta dall'archivio fotografico dell'autore)

 

 


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