Sisma. Responsabilità collettiva? Esiste solo quella individuale

Il pensiero di Guardini e la lettera di Parisse

06 Aprile 2010   18:21  

Sono 25mila le persone che hanno partecipato alla fiaccolata in commemorazione del sisma che il sei aprile scorso ha distrutto L’Aquila. Una grande fiamma silenziosa si è allungata sulle strade della città, insinuandosi nei vicoli, ammantando le piazze, fluendo nei luoghi del dolore abruzzese, dove appena un anno fa la terra ha tremato, urlato, ucciso.

308 nomi, 308 rintocchi di campana, 308 volti scomparsi dal nostro spazio tempo così gravido di attesa e povero di fiducia, amore. Si parla di responsabilità collettiva. Un sistema che nella sua decadenza avrebbe fatto acqua da tutte le parti, come un colabrodo, un ombrello rotto e striminzito contro il nubifragio, una nave che affonda nella tempesta, nonostante numerose previsioni ne avessero sconsigliato l’uscita in mare.

Proprio in questi giorni tuttavia, manco a farlo a posta, mi è capitato tra le mani un libro scritto da un grande pensatore e teologo italiano (naturalizzato tedesco) dello scorso secolo, Romano Guardini. Il testo s’intitola “Una morale per la vita”, ed è una delle letture indicate dalla Facoltà di Psicologia dell’Università G. D’Annunzio di Chieti per la preparazione all’esame di filosofia morale.

Per il religioso il concetto di responsabilità collettiva non funziona. Traumatizzato dagli alibi forniti dai grandi totalitarismi, constata e prende di petto solo quella legata alla persona, che “consiste nel dover rispondere di un’azione o di un’omissione scaturiti dalla propria cognizione e decisione”.

Da pag. 103 del testo sopracitato: “Esiste naturalmente una forma di responsabilità anche per quello che fanno altri, nel caso in cui sussisteva il dovere di vigilare sulla  correttezza della loro condotta: un padre, ad esempio, non può affermare che il comportamento dei figli non lo riguarda in nulla, perché è lui ad averli o non averli educati, in modo giusto o sbagliato; un dirigente d’azienda non può dire che l’opera o il destino dei suoi dipendenti non lo riguarda affatto, perché è suo dovere preoccuparsi del giusto ordine nella sua impresa. Relativamente a questo aspetto, esiste anche una corresponsabilità del singolo per ciò che lo Stato e, al suo interno, il popolo fanno, con il suo agire o non agire, era coinvolto personalmente nel succitato comportamento dello Stato e del popolo, cui appartiene; …”

Per Guardini dunque, la responsabilità è prima di tutto personale, individuale, connessa alla persona che siamo e che abbiamo il compito di realizzare.

Riferirsi al “Così fan tutti”, alla volontà del sistema o all’orientamento espresso dalla massa, ogni volta che abbiamo visto il male e su di esso chiuso gli occhi, non è più sostenibile. Di fronte ad un accadimento ognuno di noi ha un preciso grado di responsabilità personale da valutare: nullo, lieve o elevato che sia.

Piuttosto assumersi la responsabilità intellettuale e sociale delle ingiustizie non commesse, ma alle quali abbiamo assistito, partecipare alla tragedia di un popolo o di una famiglia come fosse, e forse sempre lo è, connessa alla nostra storia. E’ questa forse, la lezione più dura che il sisma aquilano ci costringe ad apprendere, a far nostra. Che la vita dell’Altro dipende anche da noi, nella misura e nella forma in cui l’esistenza ci ha chiamato a vegliarla, custodirla, guardarla in faccia, e non di sfuggita. 308 volti. 308 rintocchi. Potrete mai perdonarci?

 

A seguire la lettera ai figli di Giustino Parisse, pubblicata dal Centro ad un anno dalla tragedia. Pur non avendo alcuna colpa della loro morte, l’uomo avverte il peso enorme della responsabilità che sentiva e sente nei loro confronti. Una responsabilità che oggi estende al corpo sociale dell’aquilano, ai bambini e alle famiglie degli Altri,  affinché nessuno debba più “morire sotto le macerie” come “Domenico, Maria Paola, e le altre 306 persone…” . Ogni padre che si rispetti, ogni vero padre, è anche padre del mondo.

Dal Centro online:

“Giustino Parisse scrive ai suoi figli scomparsi il sei aprile

di Giustino Parisse

Un anno fa ho perso la mia famiglia, il mio paese, Onna, e 40 dei suoi abitanti. E ho perso L’Aquila. Dopo un anno il dolore è, se possibile, ancora più forte. Questa è una lettera ai miei figli. Non so se la leggeranno. Ma sentivo di doverla scrivere.

Caro Domenico, cara Maria Paola stamattina, come ogni mattina da un anno ormai, ho creduto, nel mio dormiveglia, di sentire i rumori di una famiglia felice: porte che si aprono, l’odore del caffè che arriva dalla cucina, il libro che non si trova, l’ultimo ripasso prima dell’interrogazione, e poi l’uscio che si chiude, le portiere della macchina che sbattono, l’i nizio di un nuovo giorno pieno di affanni, ma anche di gioie e fiducia nel futuro.

Da un anno non sento più rumori, se non quello del tuffo al cuore quando, come se non volessi arrendermi all’evidenza, scopro che le vostre camerette non ci sono più, che là, sotto quelle macerie avete lasciato i sogni, le vostre cose, il cellulare per inviare i messaggi agli amici, il computer per studiare e per chattare, il diario con l’annotazione di un pensiero, di un appuntamento, di una festa alla quale non poter rinunciare.

Quella notte di un anno fa, eravamo tutti in quella casa che credevamo la più bella e sicura del mondo.
Ero io che ve lo avevo fatto credere e voi di papà avevate fiducia. Io ho tradito la vostra fiducia. Quando tu, Maria Paola, all’una di quella notte maledetta mi hai detto: papà, qui moriamo tutti, io ti ho rassicurato e ho segnato il tuo triste destino.

Quel grido, che alle 3.32 è arrivato dalla cameretta di Domenico non era «Aiuto, aiuto». Era «Papà, papà». Quella notte non sono stato capace di salvarvi, mi sono arreso di fronte a una montagna di macerie, alla polvere che bloccava il respiro, all’incubo del quale non riuscivo a vedere i contorni. Mentre voi ci lasciavate, papà e mamma erano lì, in pigiama a cercare l’impossibile, a fare nulla, perché nulla c’era da fare, nemmeno piangere e gridare. Noi eravamo vivi, io che vi avevo costruito una bara di sassi ero vivo e non so ancora spiegarmi perché. In questi mesi tanto si è parlato dei crolli e delle responsabilità. Io ho avuto la grande colpa di fidarmi di chi ci rassicurava, come voi vi siete fidati di me. Ma della vostra morte sono il primo colpevole: non cerco alibi o giustificazioni anche se mi aspetto anch’io che la giustizia degli uomini faccia chiarezza fino in fondo e stabilisca se prima del sisma ci siano state leggerezze, superficialità, incompetenze. Per quanto mi riguarda chi ha scelto di farmi restare vivo mi ha condannato senza appello: non sono morto quella notte, me ne andrò pian piano fra i dubbi, i rimorsi, i sensi di colpa. Voi non meritavate di morire così. Io forse non meritavo di restare in questo mondo.

Oggi, un anno dopo, il dolore è più forte che mai.

 Ogni volta che vi penso, e lo faccio ogni ora, ogni minuto, ogni secondo, per prima cosa vi chiedo perdono. Due giorni fa, da solo come sempre, sono venuto a farvi visita al cimitero. Ho trovato tanti fiori e piccoli oggetti che vi hanno regalato i cugini e gli amici. È stato l’unico momento in cui ho sorriso: non vi hanno dimenticato e questa per me è la più grande consolazione.

In questo anno sono andato in tante scuole a parlare con ragazzi che hanno più o meno la vostra età.

In ognuno di loro ho visto i vostri volti. Davanti alla tua foto, cara Maria Paola, spesso non reggo all’e mozione. Quel tuo sguardo quando eri ancora fra noi, per me era il tuo modo per approvare o disapprovare una cosa che avevo detto o fatto. Per me contava solo quel tuo giudizio ed ero certo che mi avresti accompagnato negli anni del tramonto regalandomi tanti momenti sereni senza mai essere invadente, senza mai chiedere nulla, sapendo che su tuo padre ci potevi contare e io potevo contare su di te. Ricordo il giorno quando fra me e te è come se fosse scoppiata una scintilla. Tu sai che io non sono mai stato un padre da bacetto della buona notte. E di questo, credimi, non me ne trovo pentito. Non ho mai sentito il bisogno di dirti ogni secondo che ti volevo bene, tu sapevi che te ne volevo e questo bastava a entrambi.

Nel maggio del 2007 io e mamma ci siamo presi una bella paura. Ti era spuntata una piccola ciste sul collo. Per più di tre mesi abbiamo cercato di capire se fosse o meno una cosa grave. Alla fine i medici ci hanno rassicurato ma hanno anche consigliato di toglierla. Era in una posizione molto delicata, l’intervento chirurgico è durato più di tre ore. Siamo stati con il fiato sospeso. Quando ti hanno riportato in camera è iniziato il risveglio dall’anestesia. Tu tremavi di freddo e pronunciavi frasi sconnesse. Io ero lì vicino a te e non riuscivo a bloccare l’ansia. Allora ho fatto un gesto fra i più normali del mondo, ho preso la tua mano sinistra e l’ho stretta forte. Ho visto che ti sei tranquillizzata, mi hai fatto un sorriso. Ti ho chiesto: come stai? Bene, mi hai risposto. Non era vero ma credo che tu l’avessi detto perchè ti sei sentita sicura e protetta. Come ti sentivi sicura e protetta quella notte, e io ho tradito la tua fiducia.

Pochi giorni prima del terremoto mi avevi chiesto: perché un giorno non ci facciamo una passeggiata? Nella tua voce c’era una sottile ironia. Sapevi che anche per fare poche centinaia di metri prendevo la macchina. Eppure quella passeggiata che non ho fatto con te è uno dei tormenti delle mie notti. Quando tutto fila liscio sembra che non ci sia mai tempo per fare le cose importanti. Poi, quando le cose importanti ti vengono a mancare ti accorgi di quanto era vuota la tua vita mentre inseguivi il nulla correndo di qua e di là come una trottola.

C’era un sogno nella mia vita che non ti ho mai confessato anche se a volte abbiamo parlato anche dei nostri piccoli segreti. Spesso quando ero in macchina mi piaceva ascoltare una canzone che parlava di un padre che porta la figlia all’altare nel giorno del suo matrimonio. Ecco quella era la cosa che mi avrebbe fatto felice. Sognavo quel momento - magari fra 10 o 20 anni - sarebbe stato uno dei giorni più belli della tua vita ma lo sarebbe stato ancora di più per me. Quel giorno non arriverà e il nastro registrato con quella canzone è finito sotto le macerie insieme a tutto il resto. Domenico, è difficile parlare di te solo come un figlio.

 

Guardandoti crescere, e ormai eri diventato un ragazzone, rivedevo me con le mie timidezze, le mie paure ma anche con un senso forte della famiglia, di un progetto da costruire insieme.
Sai quante volte in questo anno ho pensato a una frase che mi dicevi sempre quando tornavi da scuola e mi trovavi seduto sul divano con l’aria un po’ corrucciata: «Che hai fatto papà, di che ti lamenti, hai due figli bellissimi» e con un po’ di autoironia aggiungevi: «Soprattutto il maschietto».
Ti ricordi quando, tu ancora piccolo, ci azzuffavamo sul letto anche se in realtà lo facevamo più per abbracciarci e stare un po’ insieme per condividere momenti sereni.
E poi per anni, ogni sera, prima di andare a letto sempre lì a misurare quant’eri cresciuto. Pochi mesi prima del terremoto avevi esultato: sono più alto di te.

Io ti ricordavo quando, a pochi mesi di vita, ti tenevo tutto su un solo braccio.
Ora non ce l’avrei fatta nemmeno a tenerti sulle spalle. E tu che mi dicevi: sarò il bastone della tua vecchiaia.
Io a risponderti scherzando: sì in testa me lo darai il bastone.
Nel 2008, l’ultimo anno della nostra vita, a maggio si svolse come sempre la festa parrocchiale. Tuo nonno Domenico doveva «portare» la statua della Madonna delle Grazie.
Tutti i portatori devono indossare la «divisa» della Congregazione. Quel giorno tutti e tre avevamo quella «divisa» e ci facemmo fotografare insieme davanti all’immagine lignea della Vergine: quella foto oggi la conservo come una reliquia, in quella foto c’è il mio sogno infranto.
E c’è tutta la mia solitudine.

Tu ricordi? Avevamo creato insieme un posto dove stare tranquilli: era la nostra biblioteca. Avevi contribuito a catalogare tutti i libri. Ormai erano a quota 5.000. Quante sere passate ad arricchire il nostro sito internet sulla storia di Onna.
Non sapevamo che quelle fotografie che avevi scattato a febbraio sarebbero finite su un libro dedicato a te, a Maria Paola, a papà Domenico, ai miei onnesi che quella notte se ne sono andati per sempre.

Quella era la nostra vita.
Poi è arrivata la scossa e tutto è finito. Oggi quando mi chiedono quali sono gli obiettivi della mia esistenza rispondo che siete comunque e sempre voi. Nessuno potrà ricostruire la mia vita e la nostra famiglia.
Ma nessuno potrà cancellare dalla mia mente il vostro ricordo. Anche se questo per me significa senso del vuoto, pianto, angoscia, respiro che si ferma.

Io non so se voi mi avete perdonato. So che comunque ho un impegno nei vostri confronti e nei confronti di tutti quelli che sono morti.
Voglio che i nostri luoghi vengano ricostruiti.
Non per me.
Io ho poco da chiedere al futuro. Quei luoghi però, noi li avevamo ereditati. Dobbiamo restituirli a chi tornerà a viverci e dovranno essere più belli e soprattutto più sicuri. Lo dico con una rabbia che si fa amarezza: nessun genitore dovrà soffrire come sto soffrendo io.
Nessuno deve più morire sotto le macerie come voi, Domenico e Maria Paola e come le altre 306 persone.
Ora, mentre chiudo questo scritto, con le lacrime agli occhi, ho una grande voglia di abbracciarvi. Non posso, perché non ci siete. Ma voglio dirvi che se il mio dolore è così grande è perché era grande la gioia che mi avete dato, e in fondo sono stato fortunato ad avere due figli come voi.
Ciao dal vostro papà.
Fino all’ultimo giorno.
Fino all’ultimo respiro.

 

(06 aprile 2010)”

 

 

 

 

 I servizi precedenti sul terremoto aquilano del sei aprile scorso

La lunga strada del cittadino post sismico

Alla ricerca del letto perduto. Storia di Mattia

Sisma e psiche. Intervista a Noemi D'Addezio


 

 

 

Giovanna Di Carlo

 

 

 

 

 

 


 

 


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