L'arcobaleno e la città salutano Monsignor Giuseppe Petrocchi

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08 Luglio 2013   06:14  

OMELIA TENUTA DA SUA ECC.ZA MONS. GIUSEPPE PETROCCHI
IN OCCASIONE DELLA S. MESSA CELEBRATA PER L’INIZIO DEL SUO MINISTERO PASTORALE NELLA ARCIDIOCESI DE L’AQUILA

Basilica di S. Maria di Collemaggio, 07 Luglio 2013

Preciso che quando parlo de L’Aquila parlo a tutti i Fedeli dell’Arcidiocesi e mi rivolgo a tutti i Centri di questo comprensorio. Utilizzo, dunque, L’Aquila come nome collettivo.

Al reverendissimo Nunzio Apostolico in Italia, Mons. Adriano Bernardini (rappresentante del S. Padre nella nostra Nazione) , al reverendissimo Mons. Orlando Antonini, Nunzio Apostolico in Serbia (nostro conterraneo), ai carissimi Confratelli nell’Episcopato, ai Presbiteri e ai Diaconi, alle Religiose e ai Religiosi, alle Autorità Civili e Militari, a voi tutti carissimi Fedeli, vada il mio cordiale e deferente saluto.

Sappiamo che la Parola di Dio non incrocia mai casualmente le vie della nostra esistenza; al contrario, essa getta sempre un potente fascio di Verità e di Amore sugli eventi che stiamo vivendo.

Mi sono accostato ai brani biblici di questa liturgia guidato da due pensieri: il primo, è che Dio, quando si rivolge a noi attraverso la Sacra Scrittura, parla contemporaneamente a tutti e a ciascuno. Cioè, il Suo messaggio è indissolubilmente coniugato “al plurale” (perché rivolto alla Chiesa universale e al mondo intero), ma è anche declinato al “singolare” (perché indirizzato ad ognuno, nella sua unica ed irrepetibile individualità). Lo sguardo dell’Onnipotente, infatti, quando fissa l’umanità nel suo insieme coglie anche, con nitidezza assoluta, il volto di ogni persona.
Il secondo pensiero è che il Signore attraverso le letture che sono state proclamate non solo sta parlando “a” noi, ma sta anche parlando “di” noi.

Il Verbo-fatto-carne, infatti, non solo ci rivela il Padre celeste, ma anche manifesta noi a noi stessi. Solo in Gesù, Figlio di Dio fatto uomo, possiamo sapere “Chi” è Dio e “chi” siamo noi: e così capire da “dove” veniamo”, verso quale meta andiamo e in quale punto del nostro pellegrinaggio ci troviamo.

Queste riflessioni mi aiutano - specie nell’Anno della Fede - a mettermi totalmente in gioco, sia al cospetto di Dio come anche davanti a voi: infatti, pur essendo stato inviato a questa Chiesa per svolgere il ministero apostolico di insegnare, so bene che non posso essere autentica eco della Parola se prima non mi metto alla Sua Scuola, con lo stile di Maria.

Mi risuonano forti nel cuore le espressioni di sant’Agostino ai fedeli d’Ippona:

«da questa cattedra siamo per voi come maestri, ma siamo condiscepoli con voi sotto quell’unico Maestro»1; «vi do un nutrimento di cui io stesso vivo, metto sulla vostra tavola gli alimenti di cui mi sazio io stesso. Io sono un ministro, non il padrone di casa»2.

In tale prospettiva mi appare lecito attualizzare il testo biblico e calarlo nella nostra esistenza concreta, adottando - ovviamente - la necessaria prudenza interpretativa e ricorrendo al metodo, sempre approssimato, dell’analogia.
Il brano del profeta Isaia (66,10-14) esordisce con un invito appassionato e lieto, in cui si avverte la tenerezza paterna di Dio: «rallegratevi con Gerusalemme» (v. 10). Come è noto, Gerusalemme nel linguaggio biblico è simbolo della Chiesa. Mi sento spinto, allora, ad applicare a noi questa frase, traducendola così: «rallegratevi con L’Aquila», e aggiungendo le frasi successive: «esultate per essa tutti voi che l’amate. Sfavillate con essa di gioia tutti voi che per essa eravate in lutto» (id.).

Se queste parole le prendiamo sul serio, non possiamo non avvertire un sussulto nell’anima. Infatti, stanno sotto gli occhi di tutti i segni impietosi della tragedia che ha colpito questa città e la sua gente.

Eppure il Signore desidera che non prevalgano in noi i toni della tristezza: Colui che abbiamo creduto Amore ci chiede di non lasciar riecheggiare, nella nostra anima, solo i tocchi mesti delle campane a lutto, ma ci invita, come il giorno di Pasqua, a suonare a festa le campane del cuore. Eppure il Signore conosce bene le devastazioni - umane e materiali - che hanno lacerato questa città e legge perfettamente il racconto scritto con lacrime e sangue sui recenti annali de L’Aquila. Sì, con profonda commozione mi metto in ginocchio di fronte ai 309 martiri del terremoto e davanti alle loro famiglie. Con questi sentimenti mi viene da dare un titolo alla narrazione del sisma: “La Passione secondo gli Aquilani”!

Ma proprio, oggi, la Parola di Dio, ci ha trasmesso una promessa meravigliosa e avvincente; infatti ci siamo sentiti dire: «voi (ndr. Aquilani) sarete portati in braccio, e sulle ginocchia sarete accarezzati. Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò... Voi lo vedrete e gioirà il vostro cuore» (vv. 12-14). Ciò che non sta alla nostra portata e quello che oltrepassa ogni aspettativa, Dio lo può compiere in noi e attraverso noi, poiché sa rendere possibile l’impossibile.

Lui, il Signore della storia, ha la potenza di trarre il bene dal male, la vita dalla morte, la vittoria dalla sconfitta, la letizia dall’angoscia, la comunione dalla solitudine. Nella misura in cui noi, a livello personale e collettivo, saremo un’eco del “sì “ di Maria, questa solenne promessa si realizzerà: non solo “domani”, ma già da qui e da ora.

Procedendo nel nostro cammino meditativo, attraversiamo la seconda lettura, che è stata proclamata. Incontriamo, così, nel testo di san Paolo, espressioni che ci mettono davanti al “paradosso cristiano”, cioè, al mistero della Pasqua, che è follia per i pagani ma sapienza di Dio per i credenti. L’apostolo delle genti, infatti, non si limita a dire che accetta la croce, né gli basta affermare che è pronto a sopportarla con stoica rassegnazione. Arriva a dire che della croce si vanta (cfr. Gal 6,14). Non la giudica, dunque, un incidente di percorso o una contrarietà che gli è piombata addosso, ma la considera un bene prezioso, di cui essere felice e da esporre con fierezza. È proprio la croce, vissuta in Gesù, che lo rigenera come «nuova creatura» (Gal 6,15). Si tratta di una “provocazione” evangelica, che solo lo Spirito ci svela come sapienza di Dio (cfr. 1Cor 2,12-16).

Vi confido che l’impatto con questo “pensiero rovesciato”, rispetto alla semplice logica umana, ha cambiato pure la mia vita. Ricordo che ero ancora un giovane studente quando fui afferrato da questa intuizione e scrissi su un foglio, che ancora conservo: «oggi ho capito che posso essere libero e contento sempre: non solo “nonostante” il dolore, ma “grazie” al dolore, se lo rendo Amore».

In seguito, nelle mie catechesi, per farmi capire dai ragazzi, ho utilizzato spesso l’esempio del carbone. Questo fossile, in natura, non rappresenta un materiale pregevole, anzi, è il contrario. Infatti è friabile, esala gas tossici e sporca. Se si ignorasse il segreto delle sue potenzialità energetiche, trovarselo nel proprio ambiente sarebbe considerato una disgrazia. Ma se viene acceso e bruciato, questa sgradevole sostanza diventa una formidabile fonte di luce e di calore.

In modo analogo si può dire che anche la sofferenza, se viene rigettata e maledetta finisce per opprimere ed intossicare l’esistenza, suscitando o rabbia ustionante o avvilimento paralizzante; ma se viene “accesa” nella Pasqua di Gesù, si trasforma in una fonte meravigliosa di Saggezza e di Vita, generando pienezza e gioia. L’arte più nobile - che il discepolo di Gesù deve sempre meglio apprendere - sta nel rendere le difficoltà risorse e nel “convertire” i problemi in “combustibile” spirituale e umano. Per questo san Paolo può concludere: «su quanti seguiranno questa norma sia pace e misericordia» (Gal 6,16).

Ricordo che, dopo i mesi cupi che seguirono il terribile terremoto del 6 aprile 2009, un mio amico sacerdote, che aveva visitato la Città distrutta, mi disse: «su L’Aquila è scesa una grande notte». Questa frase mi trafisse il cuore. Allora mi è venuto in mente che la notte non cala sulla terra solo per avvolgere e nascondere tutto, ma viene anche per svelare ciò che non si percepisce quando splende il sole. Proprio così, sotto certi aspetti, la notte fa vedere! Pensate alla bellezza sublime del cielo stellato: solo al buio si può cogliere e ammirare. Dunque, la notte mostra ciò che il giorno oscura con la sua luce.

Vorrei proprio che la “grande notte” che si è posata su L’Aquila fosse una occasione per riscoprire valori cristiani e umani (es.: ciò che conta e ciò che è superfluo, ciò che resta e ciò che passa, ciò che edifica e ciò che crolla), spesso occultati da una vita frenetica e secolarizzata. Ho, però, da Vescovo un desiderio ancora più struggente nel cuore: ed è che il “buio” sceso sulla Città, diventi - come a Natale e a Pasqua - una “notte luminosa”. Sì, perché proprio dall’oscurità Dio fa sprigionare il fulgore della sua gloria, che annuncia il Suo Amore e dona la salvezza a tutti gli uomini di buona volontà.

Sappiamo che il Signore, morendo, ha preso su di sé il dolore del mondo, facendo “sua” la tribolazione di tutti e di ciascuno. Per questo sostando sul testo di Paolo, mi viene da affermare che anche questa Città porta le stigmate di Gesù sul suo corpo (cfr. Gal 6,17).

Leggendo il libro dell’Apocalisse mi ha colpito il fatto che l’Onnipotente non solo ci ha dato un “angelo custode” personale, ma ha assegnato un angelo protettore a ciascuna Chiesa, e di lui si serve per far giungere i suoi messaggi alla Comunità cristiana. Oggi mi sembra di ascoltare la voce dell’Angelo di questa Chiesa che dice: “L’Aquila, ascolta la voce del tuo Dio! L’Aquila, Città crocifissa, risorgi ogni giorno con il tuo Signore!”.

La risurrezione- ricordiamolo - non è soltanto risalire dal pozzo della morte per ripristinare la vita così come era prima: non si tratta di un semplice recupero del già-dato, ottenuto tornando al passato, ma di uno stupendo balzo in avanti. È accesso ad una novità in precedenza impensabile, è scoperta di prospettive inedite ed entusiasmanti, è inaugurazione di un avvenire più alto; inizio di compimenti stupendi e creativi.

Ecco perché - diciamolo ad alta voce - non ci contenteremo di vedere soltanto cicatrizzate le ferite della nostra Città: vogliamo che L’Aquila diventi un inno alla Vita e al coraggio, una “Città sul monte” alla quale tanti si diranno onorati di guardare.

Poiché ogni vittoria sul male non è impresa solo umana ma chiede l’intervento del Signore, anche la “ricostruzione” della nostra Città deve partire dall’anima del suo popolo. Le metodologie tecniche, le procedure amministrative e le risorse finanziarie sono necessarie, ma non sufficienti a garantire la “risurrezione” de L’Aquila. Pure nel nostro caso vale quanto affermato nel salmo: «se il Signore non costruisce la città, invano si affaticano i costruttori» (127,1).

Bisognerà, perciò, anzitutto attivare i “cantieri della comunione” e attingere forza alle sorgenti della grazia. Pertanto, nello svolgere il ministero di santificare - che è proprio del Vescovo - cercherò di essere, insieme ai miei Presbiteri, un buon “dispensatore” dei doni della salvezza, specialmente attraverso la celebrazione della eucaristia (che è il cuore pulsante della Chiesa) e degli altri sacramenti, come anche nell’impegno quotidiano della preghiera e nella tensione a dare il buon esempio, per diventare il più possibile una “ripresentazione sacramentale” di Gesù, Buon Pastore (cfr. PdV, 15).

Nella nostra esplorazione della Parola approdiamo al brano del Vangelo di Luca (Lc 10,1-12.17-20), che l’odierna liturgia ci dona.
«In quel tempo - ci riferisce il testo - il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi» (v.1).

La formula del “due a due”, nella dimensione biblica, non rappresenta solo un efficace accorgimento “operativo” (è noto, infatti, che un lavoro fatto in équipe risulta più efficace ed affidabile dell’attività svolta da un singolo individuo): qui viene enunciato un “codice comunionale”, essenziale per la vita e la missione della Chiesa. Il “due”, infatti, costituisce il numero minimo, ma sufficiente, per avere la presenza del Risorto nella comunità (cfr. Mt 18,20). Ed è noto che solo uomini in comunione, con il Signore e tra di loro, possono edificare la Chiesa, evangelizzare il mondo e renderlo più umano.

La comunione è un evento che viene suscitato esclusivamente dallo Spirito Santo: è Lui, infatti, che può fare dei molti e dei diversi un solo corpo (cfr. Rm 12,4-5), capace di testimoniare l’unità trinitaria, poiché partecipa - già sulla terra - alla Vita che si svolge in Cielo.

Proprio il tema dell’effusione dello Spirito - che convoca, unisce e invia la comunità ecclesiale - mi richiama il “popolo della Pentecoste”, in cui ciascuno, pur parlando la propria lingua, capiva gli altri e sapeva collaborare con loro (cfr. At 2,1-12). Questo richiamo inevitabilmente mi rievoca, per contrasto, la “gente di Babele”, che parlava la stessa lingua, ma finì per non intendersi più e arrivò a dividersi irreversibilmente (cfr. Gen 11,1-9).

L’esperienza di Pentecoste, frutto della carità vicendevole, ha consentito alle persone che l’hanno vissuta di edificare la Chiesa: come “Città di Dio” e, proprio per questo, “Casa accogliente” per tutti gli uomini. A Babele, invece, con orgoglio smisurato si era ideata una “Città solo mondana”, da cui Dio era esiliato: ma le incomprensioni e le inimicizie che, a causa degli egoismi e delle falsità, divamparono tra i suoi abitanti, li portò a desistere dall’impresa e a disperdersi.

Come l’“evento della Pentecoste” attraversa tutta la storia e, anche oggi, si riattua “in” noi e “tra” noi, così anche il “morbo di Babele” si diffonde nel corso dei tempi e giunge a contagiare i nostri giorni.

Non è difficile tracciare, anche se in modo appena abbozzato e non conclusivo, l’“identikit” di coloro che hanno ricevuto il “gene rinnovante della Pentecoste” e di quanti portano “la patologia di Babele”.
Chi vive nello Spirito di Unità, cerca il bene di tutti e di ciascuno, ama e dice la verità, sa fare-Pasqua, è pronto a chiedere e a dare perdono, è attento al dialogo, possiede l’arte di impostare relazioni animate dal rispetto e dalla speranza, promuove la giustizia e fa fiorire la pace; sa progettare il futuro con lungimiranza profetica. È radicato nella carità di Cristo (cfr. 1Cor 13,4-7): per questo - in tutto, soprattutto, nonostante tutto - è un instancabile e gioioso “tessitore di comunione”.

Chi, invece, è affetto dalla “sindrome di Babele” sviluppa inevitabilmente un pensiero tendenzioso e distorsivo, che lo spinge a valutazioni autoreferenziali e deformate; è dominato da un irrefrenabile e corrosivo egocentrismo, che lo induce a dare sempre e comunque precedenza ai suoi interessi privati rispetto al bene generale; essendo incapace di ascoltare, risulta allergico ad un confronto onesto e a tutto campo; si mostra polemico e litigioso, evidenziando uno scarso livello di autocritica; non tollerando disconferme delle proprie aspettative (narcisistiche e voraci), punta spesso il dito in atteggiamento ostile e raramente tende la mano per l’incontro fraterno; sparge abilmente sospetti e usa volentieri le catapulte della diffamazione.
So per certo che il popolo aquilano, forte e gentile, ha sviluppato nel corso dei secoli robuste virtù cristiane ed umane - accese nel fuoco della Pentecoste - e sa spiegare le sue ali al vento dello Spirito.

Inoltre, la benedetta presenza nel suo territorio di tanti Santi (sia quelli canonizzati, come la innumerevole schiera di quelli anonimi) ha permesso alla Comunità ecclesiale e sociale di immunizzarsi largamente dai “virus epidemici di Babele” e l’ha resa idonea a produrre sane energie - spirituali, culturali e sociali - che alimentano la coesione, l’equa condivisione e la fattiva solidarietà.

Solo i “figli della Pentecoste” contribuiranno a far risorgere L’Aquila (preciso, che - a modo loro, e con un proprio statuto teologico - considero “figli della Pentecoste” tutti gli uomini di “buona volontà” e gli autentici cercatori di verità, anche se di diversa ispirazione ideale); gli altri, i “discepoli di Babele”, rappresenteranno costanti fattori di disgregazione e di cronica conflittività.
È bene precisare che difficilmente si trovano queste due “soggettività” allo stato puro: dobbiamo, invece, ammettere con umiltà che ciascuno di noi ospita in sé - anche se con diversi dosaggi - i “semi” della Pentecoste e i “germi” di Babele. Tutto il nostro lavoro sta, con l’aiuto del Signore, nel portare a piena maturazione i primi e neutralizzare i secondi. Proprio nel campo dell’anima, perciò, si gioca questa partita, decisiva per il nostro destino e per il compito che la Provvidenza ci ha assegnato nel mondo.

La missione, a cui il Vangelo ci spinge, trova nella comunione la sua origine, la sua anima e il fine verso cui si muove. Il Signore ci chiede di affrontare la sfida poggiandoci unicamente sulla forza umile e liberante del Vangelo. «Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi» (v. 3) abbiamo sentito dirci. Gesù ci invia disarmati ed esposti al pericolo, perché sa che gli agnelli - se sono da Lui custoditi - non hanno nulla da temere. Anzi, se in essi agisce la forza del Buon Pastore, sono tra di loro uniti e rimangono veri agnelli nell’Agnello, ci sarebbe proprio da dire: poveri lupi! (cfr. vv. 17-18)

Va sottolineato che il nucleo centrale dell’annuncio («è vicino a voi il regno di Dio», v. 9) è sempre accompagnato dall’esperienza sanante e liberante che deriva dall’incontro con il Signore («guarite i malati», id.). Qui sta il segreto della fruttuosità pastorale e della vera gioia: esse provengono dal compiere la missione che ci è assegnata nel segno della fraternità e della speranza («i settantadue tornarono pieni di gioia», v. 17).

Il vescovo - come sapete - è inviato a reggere la Diocesi come vicario e rappresentante di Cristo (cfr. LG, 27). Egli, come successore degli Apostoli, è il principio visibile e il garante dell’unità della sua Chiesa particolare (cfr. LG, 23). In questo orizzonte - sull’esempio di Gesù, che «non è venuto per farsi servire, ma per servire» (Mt 20,28) - egli deve esercitare il compito di guidare la Chiesa particolare che gli è stata affidata, aiutandola ad avanzare nel santo viaggio ed esortandola a protendersi nella carità verso tutti, specie i poveri e gli ultimi. Nell’adempimento di tale ministero, intendo attenermi fermamente al proposito enunciato dal cardinale Massaia: si sappia che «io tratterò la causa della mia missione con la libertà propria del Vescovo, il quale deve essere, fino alla morte, servo di Dio, di Pietro e di nessun altro»3.

La sacra potestà, di cui il Vescovo è rivestito, è una “autorità di comunione”: proviene “dalla” comunione, va vissuta “in” comunione ed esercitata “per” la comunione. Questa volontà, di spendermi fino in fondo perché tutti siano uno (cfr. Gv 17,20-21), la manifesto anzitutto nei confronti del Santo Padre, Papa Francesco: prometto solennemente di impegnarmi a valutare, sentire ed agire, sempre e in tutto, “cum Petro e sub Petro”.

Con i miei Confratelli nell’Episcopato intendo vivere la collegialità apostolica con la mente libera e il cuore spalancato, perché, con il loro aiuto, possa sempre di più servire la Chiesa con la carità di Cristo-Sposo (cfr. Ef 5,25-32).
In modo particolare, da amico sincero, rivolgo un cordialissimo saluto al mio predecessore, l’Arcivescovo Giuseppe Molinari, che per quindici anni si è donato senza misura per questa Chiesa, e al Vescovo Ausiliare, mons. Giovanni D’Ercole, che ha dato il suo competente e generoso apporto alla rinascita de L’Aquila. A nome mio e dell’intera Comunità raccolgo per intero il riconoscente discorso, che mi verrebbe da fare, in una sola, semplice ma densissima parola: Grazie, per tutto; grazie per sempre!

Stringo in un unico e forte bbraccio tutti i miei carissimi amici della Diocesi di Latina-Terracina-Sezze-Priverno, che continuerò a servire, come Amministratore Apostolico, fino all’arrivo del mio Successore: sapendo che i campi del Vangelo, in cui si è lavorato insieme, portano frutti di grazie che rimangono (cfr. Gv 15, 1-17).

A Maria, Madre e Modello della Comunione, affido il cammino che la Provvidenza apre davanti a noi. Lei, resa dal Figlio serva dell’umanità4, ci accompagni sulla via della Verità e del Bene. La sua mano ferma e materna ci aiuti, nel tempo che ci è dato, a scrivere pagine belle di unità, custodite in eterno nel grande Libro della Vita (cfr. Lc 10,20). La Sua intercessione, e quella dei Santi Patroni, ci consentano di donarci senza sosta, perché L’Aquila diventi se stessa e rivestita della luminosa bellezza, con cui Dio l’ha baciata e benedetta, possa anch’essa cantare il suo “magnificat”.

Una ultima confidenza voglio fare a voi, Sorelle e Fratelli nel Signore: vi ho già detto che vi voglio bene e oggi solennemente ve lo ripeto. Spero che, con l’aiuto di Dio, possa dimostrarvelo sempre: qualunque cosa accada e fino all’ultimo respiro! Amen!

+ Giuseppe Petrocchi

 


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Giuseppe Petrocchi, Collemaggio
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