I cocci di Mr. T in carriola

di Antonio Gasbarrini

27 Marzo 2010   13:09  

Non lo confesso, ma lo ammetto. Sono uno dei cospiratori della "rivolta-rivoluzione" delle carriole. Tutto era cominciato intorno alla fine di febbraio. Faceva freddo. Da Porta Branconia avevo scattato alcune fotografie per documentare lo scacco matto dato dai costruttori e dagli amministratori locali, alla duecentesca città federiciana intorno alla metà degli anni Cinquanta del secolo scorso.

Brindando a più non posso, erano riusciti a costruire, nel giro di una sessantina d'anni, l'acefala "L'Aquila 2" sulla faglia attiva di Pettino con i suoi 25.000 abitanti fuoriusciti dalle mura.

Mr. T aveva atteso con pazienza il riempimento di ogni centimetro dei secolari boschi, prati e pascoli della transumanza con quei bruttissimi casermoni e casermette messi su con cemento annacquato e sabbia dall'invisibile clan dei casalesi in combutta con vari imprenditori aquilani. Poi, in una trentina di secondi, le distruttive onde sismiche della sua roboante, sardonica voce risalita dagli inferi, avevano fatto giustizia sommaria di quello scempio urbanistico.

Alle mie spalle, la malridotta chiesa di S. Silvestro. Guardandola, avevo subito pensato agli sfregi subiti dalla fastosa "Cappella Branconio" dove agli inizi del Cinquecento faceva bella mostra di sé la  pala d'altare La Visitazione attualmente al Prado di Madrid, commissionata a Raffaello Sanzio dall'amico mecenate Giovan Battista Branconio per conto del padre Marino. Un irresistibile impulso mi aveva indotto a violare scientemente una serie di grate dissuasive erette subito dopo il 6 aprile nella "zona rossa".

Nel percorrere le vie e viuzze che conducevano in Piazza S. Pietro, avevo la netta impressione di attraversare il corpo scheletrito di uno dei più antichi quartieri medioevali dell'altalenante città guelfoghibellina.

Un silenzio metafisico ampliava il rumore dei miei passi. Né umani, né cani, né tanto meno gatti,  uccelli o fiori sui balconi. Dei topi dovevano pur esserci da qualche parte.

Lo sguardo, inebetito, andava su e giù tra case crollate, muri sgretolati, macerie disseminate come carcasse abbandonate a se stesse. A proposito di carcasse, un vecchio macchinone della Ford, uno Scorpion azzurro, schiacciato, deformato  e riempito com'era di pietre d'epoca, sembrava un'istallazione post-pop.

Dandomi un pizzicotto avevo cercato di capire se per caso non stessi vagando nei surreali meandri di un incubo senza fine. Mentre scrutavo un tetto con architravi in legno sventrato, ho inciampato su uno dei tanti mucchi cadendovi elegantemente di schiena. Da quella insolita posizione avevo potuto apprezzare al meglio tutti i vantaggi prospettici del sotto in su, con terra, macerie, rovine e cielo perfettamente fusi in un unico, magnetico, abbraccio.

Su quest'insolito paesaggio, c'era qualcosa di stonato: il tempo La scienza ci ha insegnato che la sua freccia, la freccia del tempo, può e sa andare solamente in avanti come avviene per le nuvole sospinte dal vento. Nella mia devastata città, invece, quella freccia s'era arrestata a mezz'aria. Dopo circa un anno dai terribili guasti causati da Mr. T, tutto era rimasto fermo alle nerissime, sobbalzanti 3.32, anche se il disorientante contesto era ben incorniciabile in quadri dechirichiani.  

Rialzatomi senza troppa fatica, ho continuato la mia peregrinazione andando a zig zag. Dovevo sembrare un ubriaco. Effettivamente, la testa mi girava un po', forse per la botta ricevuta. Sbucato in Piazza S. Pietro, per poco non svenivo. No! Non era possibile!

La realtà, soprattutto se tragica, supera sempre l'immaginazione. Purtroppo i miei articoli di denuncia sulla città fantasma pubblicati su varie testate del web circa le invereconde manipolazioni massmediatiche del sig. b., trovavano qui un amplificato riscontro. Morte e desolazione assediavano ora, con le escrescenze tumorali di macerie sparse in ogni dove, il sagrato con i due leoni in pietra d'epoca romana, la scalinata, la fontana quattrocentesca, la torre campanaria dimezzata, le stesse campane somiglianti a verdastri funghi velenosi, o meglio, a piccoli dischi volanti atterrati da Marte.

Il cuore mi strabatteva. Mnemosine, come al solito, faceva capolino da qualche finestrella del mio inconscio. Su quella coppia di leoni accerchiati, quasi sovrastati dalle grosse pietre staccatesi dalla facciata, avevo nella mia infanzia cavalcato con i calzoncini corti. D'estate il rinfrescante contatto tra la mia accaldata pelle e quella levigata dei due destrieri, suppliva all'inappagata voglia di un gelato al cono. Avevo scorrazzato con la fantasia in lungo e in largo nella sottostante piazza, lanciando inoffensive grida guerresche contro i miei invisibili nemici. E adesso? Avrei dovuto imprecare contro Mr. T? Mi restava da fare, invece, una sola cosa. Rubare, con la complicità del neutrale occhio fotografico, quelle strazianti immagini scomparse per circa un anno dagli oscuranti media, per poi circuitarle nella rete.

Detto e fatto. Subito dopo sono scappato. Non già per sfuggire alle implacabili improvvisate di Mr. T o alle reprimende civili e penali dei "guardiani" della sicurezza, ma per non essere soffocato dai miasmi propagandistici governativi esalati dalle ossessionanti c.a.s.e.t.t.e erette come tangibili trofei del "ben fare" dall'impunito sig. b. Costruite a tempi di record per i soli terremotati o  perché e per chi?

I nomi della cricca malavitosa prosperata sugli appalti gonfiati e truccati del mancato G8 sardo e dei Grandi Eventi gestiti dalla Protezione Civile, riempivano pagine su pagine delle cronache giudiziarie, correndo all'impazzata di bocca in bocca. Che schifo! Quei patentati malandrini erano riusciti a concludere affari sporchi anche nella nostra martoriata città. Ridendo a più non posso qualche minuto dopo le 3.32. Alleandosi subito con vari politici-pseudo-imprenditori-basisti-NON-concittadini. Da mettere alla gogna nella parte nord dell'agibile, medioevale Piazza del Mercato, antico nome più eufonico e affascinante della risemantizzata Piazza Duomo.   

La scimmietta cinese ch'era stata messa sul saldo vertice degli scoperti ladroni della res publica, dopo la deflagrazione dello scandalo, si era autoassolta al 101 per cento: non aveva né visto, né tanto meno sentito. Adesso parlava e straparlava. Difendeva a denti stretti tutto il suo operato presente, passato e futuro. Sproloquiando da una telecamera all'altra in perfetto aplomb con la maglietta blu d'ordinanza evocatrice del pauperistico saio francescano. Un gianico dr. Jekil e mr. Hydy?

Il tempo, come al solito, saprà essere galantuomo. Staremo a vedere.

Molti mie concittadini gli sono ancora grati per come aveva saputo affrontare, a loro detta, la fase acuta  dell'emergenza. Personalmente sono stato sempre in disaccordo con la sua antidemocratica gestione autoritaria sperimentata, al peggio, nella tendopoli di Piazza d'Armi. Inoltre aveva una imperdonabile colpa: essersi trasformato in megafono, e che megafono, delle furbesche visite "fuori luogo" (extra moenia cioè) del sig. b. Nella trentina di suoi sopralluoghi in città per l'inaugurazione rateale delle sue (?) c.a.s.e.t.t.e, a parte due-tre eccezioni, aveva sempre girato alla larga dallo spettrale centro storico.

Allorché sono fuggito da S. Pietro per rientrare nel mio covo piratesco della costa teramana, la minacciosa ombra dei due mi ha inseguito senza posa. Non riuscivo a capire cosa volesse. Forse, strozzarmi il più presto possibile.

Per rinfrancare le mie pene, l'indomani ero partito di buon mattino alla volta di Pescomaggiore, una manciata di case appollaiate su uno dei tanti cucuzzoli del versante aquilano del Gran Sasso.

Mr. T, è più che risaputo, non guarda in faccia a nessuno. Anche qui aveva lasciato la sua sismografata firma d'autore.

Non c'ero mai stato. Uscendo dal traforo dell'autostrada e lambendo il paesino di Assergi ("sergiu", in dialetto aquilano, significa sasso, ergo paese di pietre, così dicevo tra me e me), avevo poi intravisto in lontananza le cimiteriali c.a.s.e.t.t.e costruite nei pressi di Camarda. Cosa avessero da spartire quegli anonimi parallelepidi euclidei con il frattalico andirivieni delle attornianti rocce e piante, rimane un interrogativo senza risposte.

A Pescomaggiore venivano inaugurate, in una tersa mattina vestita di tutto punto in azzurro,  le prime piccole case in paglia costruite prevalentemente in economia da alcuni abitanti del luogo rimasti senza focolare.

Solo nel vederle, aggrappate ad un costone come uno sparuto gruppo di pecore, mi aveva preso un nodo alla gola. La commozione lasciava subito il posto ad uno sguardo affamato di "realtà positiva".

Dopo tanta distruzione ingoiata; dopo il vandalico stupro inferto a tutto il paesaggio aquilano dalla divorante cementificazione della ventina di little towns socialmente desertificanti ed a cui avevo assistito impotente con una rabbia canina, quella toccante realtà era tutta d'accarezzare. Non solo con  lo sguardo.

Entrando in punta di piedi nei piccoli, lindi ambienti, ricavati da balle di fieno intonacate usate come mattoni, ti sentivi a casa tua. All'esterno, i metallizzati tetti spioventi messi su da tre o quattro alpini carpentieri scesi dal nord Italia, ti davano la rassicurante certezza d'una solidità non scalfibile né dalle immancabili nevicate, né tanto meno dalle luttuose future scorribande di Mr. T.

Su queste insolite costruzioni ecobiocompatibili m'ero già fatto qualche idea scorrendo alcune pagine su internet. Il soffice, ma indurito muro in balle di paglia, respira e traspira, consentendo perciò un risparmio energetico. La sua ottima fonoassorbenza isola al meglio dai rumori esterni. Solo alle onde sonore del vento, del belato dei greggi  e del protettivo abbaiare dei cani pastore è consentito transitare (almeno così mi auguravo romanticamente).   

Alla mia richiesta sulle spese sostenute, la risposta secca dell'interlocutore è stata: "Meno dei posacenere acquistati dalla Protezione Civile per il G8 tenuto a L'Aquila". Disorientato, ma non sorpreso, avevo fatto un rapido calcolo mentale. Dunque: al metro quadro le c.a.s.e.t.t.e erano costate ai contribuenti italiani ed europei circa 2.700 euro; i lignei moduli abitativi provvisori circa 1.100; le piccole case in paglia di Pescomaggiore giusto la metà di questi ultimi.

La matematica non è proprio un'opinione. Il rapporto tra paglia e legno era di 1 a 2, mentre tra paglia e cemento, di 1 a 5. A naso, solo a naso, fiutavo da buon prevenuto classista, che in uno dei più bei numeri pitagorici, il 5 appunto, doveva annidarsi qualcosa di marcio. Chissà se la solerte magistratura aquilana avrebbe un giorno o l'altro pacificato i mie amletici dubbi.

Ma, lasciamo da parte cifre e rapinatori con doppiopetto, cravatta ed il solito colletto bianco(s)porco.

Torniamo repentinamente tra le dirute mura della città fantasma. Riconquistata la prima volta dal popolo aquilano con lo sfondamento domenicale (ne sarebbero seguiti altri) delle "mille chiavi". Fisicamente non c'ero. Quei nastrini colorati con cui erano state appese sulle grate dell'off limits, visti da lontano su giornali, televisioni e video facevano tenerezza. Ancor di più il familiare viso amico di S. L., immortalato dai media. Segnato, appena, dal lieve scorrere di ben 82 primavere. Era stato il suo minuto corpo femminile, trasmutatosi in prestante testa d'ariete sospinta da una vociante catena umana, a sfondare la sacra soglia della città rubata prima, fraudolentemente nascosta poi.

La fiumana esondava tra sguardi smarriti e lacrime a pioggia. Gli imbracati portici del liceo sulla sinistra ed i mutilati palazzi a fronte, facevano da malridotta quinta scenografica. All'inesorabile incontro con il peggio del peggio mancavano una ventina di metri.

La consistenza delle macerie, sino a quel momento, ognuno le aveva date per evaporate. A mano a mano che ci si avvicinava alla piazza dominata ancora dalla torre civica, stupore ed incredulità avevano preso il sopravvento. L'irregolare profilo d'una spelacchiata montagna brunastra alta vari metri prendeva sempre più consistenza. Sbarrando occhi e stordendo anime. Non era vero! Doveva trattarsi d'un malefico miraggio.

La centenaria, imponente statua bronzea dell'amiternino Sallustio, era stata muta testimone di quel  gigantesco, insulso, sgraziato accumulo di polvere, sassi, mattoni, tegole, coppi, cemento, suppellettili ed ogni altro ben di dio caoticamente frammischiato.  

Erano trascorsi circa undici mesi dal 6 aprile. Un furibondo, corale nooooo!!!!!, allora, aveva gonfiato l'aria ammorbata squarciando gli stratificati silenzi.

"Dopo tante pene e tanti lutti, tante lacrime e tante piaghe, tanto odio, tante ingiustizie e tanta disperazione: che fare?" Che fare? Che fare? Che fare?

Silone ammoniva e indicava come il dio Apollo dallo sguardo obliquo. La via era indicata: scalare la montagna per allontanarsi almeno un po' dalle mefitiche brutture terrene.

Per tutti, è stato un ragazzone alto un paio di metri, S. C., ad arrampicarsi per primo su quelle sconnesse macerie imbevute di memoria e di morte. Dalla sua alterata voce s'era comunque capito che di fronte all'ignavia dei cosiddetti rappresentanti del popolo, era praticabile una sola via d'uscita. Farsi giustizia da soli. Rimuovendo religiosamente con le sole mani, frammento dopo frammento, le neglette macerie.

I successivi quattro appuntamenti domenicali con carriole, pali e secchi di varia foggia avevano assunto le stesse sfumature insurrezionali della migliore tradizione comunarda. Rovesciando il paradigma fondamentale della tattica barricadiera di ogni moto pararivoluzionario, sarebbe toccato al Popolo delle carriole abbattere questa volta le barricate-paravento con cui la Protezione Civile aveva sequestrato da circa un anno l'intero centro storico.

Questa volta non mi ero fatto sorprendere dagli eventi. Dopo la giornata delle "Mille chiavi" in  città era stato tutto un fiorire di cartelli, striscioni e parole d'ordine incentrate sulla rimozione delle macerie.

Per quanto mi riguarda, il simbolo forte della mia/nostra sacrosanta protesta, l'avevo creativamente concentrato su un cappello di carta da muratore. Confezionato in un centinaio di esemplari  con l'uso esclusivo di giornali progressisti. La sovrascritta "L'Aquila risorge dalle sue macerie" l'aveva coniata P. L.  Il messaggio era chiaro. Cappello vs casco protettivo. Un modo come un altro per ritornare alla normalità e per scacciare, iniziando proprio dalla testa, tutti i nefasti emblemi della disperazione e del terrore.   

Caricare sul sedile posteriore del mio vetusto diesel una pala ed una carriola, per di più arrugginite, non l'avrei mai immaginato. Punto di raccolta "Piazza del Mercato". All'inizio eravamo qualche decina. Varie migliaia nel giro di mezz'ora. Disposta come una falange romana, l'avanguardia delle carriole marciava compatta verso i Quattro Cantoni scandendo slogans su slogans.  Al seguito lo stesso popolo del Quarto Stato di Pellizza da Volpedo.

Nulla avevano potuto le forze dell'ordine contro l'energia civica sprigionata dalla massa in movimento. Travolte dallo tsunami  d'un orgoglio ritrovato, dopo il rabbioso abbattimento delle "inferriate", si sono intelligentemente fatte da parte solidarizzando.

Il tu per tu con uno dei tanti avatar entropici di Mr. T, era finalmente arrivato. Scavavamo con mani, picconi e pale. L'alito di Mr. T, sprigionato da quella deforme poltiglia serrata dal gelo della recente nevicata, era un misto di maleodoranti effluvi. Dissotterravo mattoni in cemento compresso. Riempita la carriola, destinazione "Piazza del Mercato" dove erano stati posizionati  vari cassonetti per la raccolta differenziata. Nonostante il peso, marciavo a spasso spedito tra due fitte ali di popolo plaudente. Il sorriso compiaciuto asciugava gli occhi appannati. Mi sentivo più leggero della piuma di Forrest Gump. Negli altri viaggi, ancora mattoni, però d'epoca: interi, rotti, a pezzetti.

Tra una carriolata e l'altra avevo avuto modo di rileggere sulla Torre civica un'epigrafe scritta sotto il tondo bronzeo del volto di Giuseppe Garibaldi: "Al cavaliere dell'umanità nel primo giorno del secol novo [1/1/1900. n.d.a.] posero gli operai aquilani". Eravamo "tanti" di loro.

Per associazione d'idee, altre epigrafi della mia città andavano e venivano nella sballottata mente.

Mio suocero L. D. F., autentico e non fasullo Cavaliere del lavoro, aquilano doc nato e vissuto in Piazza Angioina scomparso qualche anno fa ultranovantenne, le sapeva tutte a memoria. Anche quelle nel frattempo abrase o recuperate personalmente da qualche libro di storia. Me le recitava a mo' di filastrocca. Ne prediligevo due, in latino. Quella della fondazione della città nella seconda metà del Duecento alle 99 Cannelle e l'altra apposta da S. Giovanni da Capestrano nell' "hospital maggiore" nel 1457 costruito di lato alla Chiesa di S. Bernardino.

Nonostante le tante sfuriate di Mr. T replicate a più non posso nel giro di quasi otto secoli, godono ancora ottima salute.

La seconda domenica delle carriole, ci sentivamo più esperti ed organizzati. Per quanto riguarda il mio contributo ideativo, avevo puntato tutto sulla riappropriazione simbolica della fascia tricolore ceduta in prestito al Sindaco da noi aquilani elettori. Siccome ogni citoyen rivoluzionario era di diritto Sindaco di se  stesso, occorreva indossarla. Esibendola  con una scritta adeguata: "carriole! carriole! carriole!". La confezione di una cinquantina di esemplari era stata garantita dal disponibilissimo A. L. rintracciato telefonicamente il giorno prima. Avevo portato con me anche il cappellino cartaceo, diventato parte integrante della insolita mise. Tutto aveva funzionato alla perfezione. Stanchezza compresa. Alleviata cedendo la monoruota  ad un volenteroso. Per recuperare un po' di energie, m'ero infiltrato in una delle due fitte file dei passamano. Oscillavano, senza mai cadere, quei secchi riempiti con il cascame copiosamente ammonticchiato da Mr. T.

Ci scambiavamo parole in dialetto. Negletta linguamadre riemersa dalla notte dei tempi. La riscoperta d'una comune identità. Cementata da canzoni dimenticate e qui ricantate. Sgorgate, come rinfrescante acqua sorgiva, dalla sagace malizia popolare che le aveva generate. Eccone un assaggio:" S'è fattu notte e ju padrone strilla, / 'ice ch'è stata curta la jurnata; / Responne ju quatranu 'ella botteca: / "E' statu curtu ju cazzu che te freca". Quanta ilare, veritiera e coinvolgente poesia! Dal ragazzo di bottega, allo sfruttamento selvaggio neocapitalistico delle giovani intelligenze spremute con i vessatori contratti estorti ai co.co.co, ed ai precari, il passo è stato abbastanza lungo. Nelle fiorenti botteghe artigiane aquilane almeno s'imparava un mestiere. Nuovo di zecca per quanto ci riguardava: carriolisti. Neologismo più moderno di carriolante. D'altronde, "Un automobile [sic!] da corsa [...] è più bello della Vittoria di Samotracia".

Cocciuti come non mai, gli aquilani erano riusciti a strappare al Sindaco della città una normale domenica incruenta per fare il loro terzo shopping di macerie liberamente. Senza la rabbiosa necessità di dover sfondare insulsi reticolati separanti la città morta dai cuori vivi.

C'è di più. Un capacissimo tendone bianco posto in "Piazza del Mercato" con la gigantesca scritta "2010 Riprendiamoci la città" riassumeva tutto il candore e la dedizione totale con cui i carriolisti  spalavano, separavano, caricavano, trasportavano, depositavano nei vari punti della raccolta differenziata, gli interminabili cocci di Mr. T.

A ben riflettere, sulla carriola c'era proprio lui. Forse per questa ragione, la sottile vendetta consumata nei suoi confronti ci appagava. Al suo conclamato disordine avallato dall'ignavia delle Istituzioni che fino ad allora non avevano rimosso nell'intero centro storico nemmeno una pietra, un concio o un mattone, contrapponevamo la nostra volenterosa energia della disperazione.

Ma anche una graffiante ironia. Come la medaglia di cartone con la scritta "€ 130" che m'ero appuntato sulla fascia tricolore la domenica successiva per protestare contro l'indecorosa richiesta della Protezione Civile per il conferimento della medaglia al merito ai volontari del terremoto aquilano. Per averla, avrebbero dovuto acquistare il kit da un'azienda privata al "modico" prezzo di € 130, appunto.

Da quella strana montagna somigliante sempre più alla reincarnazione di uno spettro che non ci faceva più paura, avevamo dissotterrato di tutto. Sulla mia carriola, il sacco integro di "Grandi! lenticchie", vari libri (da Leopardi a Carmelo Bene o ad un testo sulle imposte dirette del 1911) ed un diario scolastico, avevano catturato l'attenzione di sguardi disorientati. Infradiciati com'erano, potevano essere sfogliati solo a blocchi.

Ad ognuna di quelle legnose pagine sottratte alle sgrinfie di Mr. T, andava il pensiero grato d'una sconosciuta emozione.

Rivissuta nella quarta giornata coincidente con l'entrata della primavera. Ancora il mio piccolo contributo di un tract (Guy Debord ha insegnato in proposito) recante il profilo del Centro storico con il nome delle sue dodici porte tratto da una pianta della città disegnata nel 1575 dal matematico-architetto Pico Fonticulano. Sembra un cuore, con la parte finale orientata ad est. Al suo centro la pulsante parola d'ordine "Il centro storico è mio / dalle macerie / lo libero anch'io".

Bardati di tutto punto, insieme agli altri carriolisti ed al magnifico Popolo aquilano al seguito, avevamo fatto un vero e proprio blitz nella Piazzetta IX Martiri. Più che in una montagna, c'eravamo questa volta imbattuti in una collina addossata ad uno dei palazzi puntellati. L'essiccata fontana in bronzo scolpita dal D'Antino nei primi decenni del Novecento era attorniata da cumuli d'immondizia.

Dopo alcune ore di lavoro, spossato m'ero seduto su una panchina. Mi guardavo intorno. Mattoni e pietre d'epoca ammonticchiati in varie cataste. Pulizia ripristinata. Viole piantate. Respiravo adesso, a pieni polmoni, lo stordente profumo d'una primavera ri/trovata.

Mr. T s'era eclissato. Proprio qui, come avevo già fatto infinite volte, mi sarebbe piaciuto leggere un libro.

 


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