Le carriole sul Washington Post

12 Aprile 2010   11:23  

Un anno dopo il terremoto in Italia, i residenti ricostruiscono <!-- @page { size: 21cm 29.7cm; margin: 2cm } P { margin-bottom: 0.21cm } -->

Le carriole sul Washington Post. L'articolo della corrispondente Laura Bendetti, tradotto in italiano

Un anno dopo il terremoto in Italia, i residenti ricostruiscono da soli 

di Laura Benedetti

Che cosa è una città senza il suo centro?
Questo è il tipo di domanda che un terremoto costringe a farsi. Ricostruire una città significa di più che ricostruire nuove case e negozi, significa anche ricreare i legami invisibili che tengono insieme le persone. Le città durante un'emergenza hanno bisogno di un aiuto esterno, ma la ricostruzione vera e propria spetta alla gente che ci vive.
Ogni volta che sento parlare di un altro disastro - i terremoti devastanti in Haiti e in Cile o quelli più recenti in Messico e in Indonesia - penso alla mia città, L'Aquila, che è stata colpita nel mese di aprile 2009 da un evento sismico che l'Italia non viveva da tre decenni.
Che cosa è L'Aquila, senza il suo centro? Ho fatto a me stessa questa domanda molte volte la scorsa estate, quando mi sono accampata in una tenda nel giardino di un amico, appena fuori la sua casa danneggiata. La città giaceva ai miei piedi, a non più di un chilometro e mezzo di distanza, ancora circondata dalle sue mura, i suoi monumenti principali erano ancora riconoscibili. Ma il centro era pieno di macerie, mentre le promesse di ricostruzione divenivano ogni giorno più vuote.
Dopo il disastro la risposta del governo, guidato dal primo ministro Silvio Berlusconi, è stata rapida e febbrile. Le periferie di L'Aquila sono state trasformate in cantieri per la costruzione di case temporanee per migliaia di sfollati. Bandiere italiane erano avvolte intorno ai balconi e le famiglie stordite, trasferite nelle nuove abitazioni - dotate di tutti i servizi, dagli assi da stiro ai cesti con le specialità locali - trovavano una nota di benvenuto di Berlusconi.
Ma la frenesia edilizia aveva i suoi aspetti negativi. Terreni di proprietà privata sono stati requisiti, e il paesaggio circostante, in gran parte conservato per generazioni, trasformato dall'espansione urbana. I complessi di appartamenti costruiti in fretta e furia hanno disperso su un vasto territorio quella che era una comunità molto unita, creando il problema di infrastrutture inadeguate e di "non-luoghi" sociali. Nel frattempo, il centro storico medievale, che ospitava case per 16.000 persone e oltre 1.000 tra ristoranti, negozi e uffici, è rimasto stranamente silenzioso e inaccessibile.
Sono tornata a L'Aquila nel mese di gennaio, in una città ancora senza il suo centro. Poche strade erano state riaperte, aumentando solo il senso di dislocamento. I negozi sbarrati e le impalcature davano l'impressione di una città fantasma. Sbirciando al di là delle barriere si potevano vedere cumuli di detriti e cani randagi.
Quando si ricostruirà la città? Alcune stime sono ottimiste: in 20 anni. Altre no: mai.
La maggior parte degli Aquilani sembrava aver accettato la sua nuova vita con rassegnazione. Lottavano per soddisfare i propri bisogni basici, costretti a continui trasferimenti e senza nemmeno poter partecipare attivamente alla ricostruzione della loro città. Sembravano non avere energie per combattere.
Ma in febbraio, qualcosa è cambiato. Un'indagine ha intercettato una conversazione telefonica tra due imprenditori. Uno di loro, mentre gioiva per la possibilità di trarre benefici economici dall'imminente processo di ricostruzione, ha ricordato ridendo la notizia del terremoto.
La registrazione - trasmessa dalla televisione e pubblicata on-line - sembrava dimostrare che la risposta all'emergenza non ha avuto come scopo principale l'interesse dei residenti.
Pochi giorni dopo la pubblicazione della registrazione un gruppo di Aquilani si è scontrato con la polizia che bloccava il centro della città. Dopo un breve alterco, hanno buttato giù le barriere e ottenuto l'accesso a piazza Palazzo, una piazza vietata per più di 10 mesi. In piedi su un cumulo di macerie un uomo ha improvvisato un discorso, scandendo il ritornello "Il 6 aprile io non ridevo", mentre molti dei presenti guardavano increduli la loro città, ancora piena di cumuli di macerie a quasi un anno dal terremoto.

Una donna ha chiesto dove erano i suoi concittadini: "Otto secoli di storia ci guardano. Queste rovine piangono. Stiamo piangendo. Perché siamo così pochi qui fuori?" In risposta alla sua chiamata, la domenica successiva migliaia di persone si sono ritrovate con pale e carriole per liberare la piazza dalle macerie. Hanno fatto una catena umana, passandosi i secchi di mano in mano per rimuovere i detriti. Questi incontri sono diventati regolari come lo erano le passeggiate serali lungo la strada principale e le file del "popolo delle carriole" - come sono stati chiamati - si ingrossano ogni giorno di più.

Con l'anniversario del terremoto, una nuova urgenza ha messo insieme persone di ogni età, status sociale e politico e credo religioso. Rivendicano il centro della città come parte della loro identità e chiedono di essere parte attiva della ricostruzione. La Domenica di Pasqua, gli Aquilani hanno preparato il pasto tradizionale di pane, salame, uova sode e vino. Quest'anno, però, non lo hanno consumato a casa. Lo hanno portato in piazza e lo hanno condiviso con le altre famiglie nella loro città.

Per il "popolo delle carriole" la resurrezione non può più aspettare.

 


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